Non era un randagio, aveva un padre padrone che ha deciso, in 16 anni di un’inutile vita, di non fargli mai sentire il profumo dell’erba.
Comprato o regalato, non mi è dato saperlo, con un unico scopo: un antifurto a 4 zampe.
Doveva vigilare nell’ampio giardino, per metà fiorito e per l’altra metà spianato con una colata di cemento. Inizialmente aveva tutta l’area a disposizione e, dalla finestra di casa mia, lo vedevo gironzolare irrequieto e annoiato in quel fazzoletto di terra.
Quando il padre padrone spalancava l’uscio di casa, Enrico correva scodinzolante a leccargli le mani, ma quell’anziano uomo dall’aspetto burbero lo ignorava, nemmeno una carezza, neanche per sbaglio. Progressivamente lo spazio di Enrico si è ridotto sempre più, transennato dal suo padrone perché non si avvicinasse alla porta di casa.
Non aveva una cuccia, non aveva un riparo e nemmeno un compassionevole tappeto sul quale sdraiarsi. Gli pioveva addosso d’inverno, il sole lo accecava d’estate e il maestrale gli flagellava le carni in entrambe le stagioni.
Era un cane diffidente, e mi sarei meravigliata del contrario, ho impiegato mesi per farci amicizia. Inizialmente abbaiava e ringhiava sebbene stessi a distanza dietro il cancello ma, in un lungo lavoro di conquista della fiducia, era arrivato perfino a scodinzolare quando sentiva che parcheggiavo lì davanti.
L’avevo fatto diventare abitudinario: ogni giorno, mattina e sera, una manciata di crocchette e una di coccole. Quel cibo gli doveva sembrare una meraviglia rispetto al pane duro, il suo abituale pasto quotidiano. Nelle freddissime nottate invernali gli portavo del brodo caldo per illuderlo almeno un istante, stupidamente convinta di sollevare la sua temperatura corporea, di fargli percepire l’affetto di qualcuno che si occupasse di lui.
Ho provato a curarlo, anche.
Delle piaghe purulente gli devastavano le cosce, sulle quali il cemento scavava inesorabili solchi che le mosche avevano eletto a dimora quali luoghi ideali per depositarvi le uova.
Ogni giorno gli somministravo un antibiotico, ma non bastava, occorrevano delle medicazioni esterne. Ho pregato il padre padrone di concedermi l’opportunità di portarlo a fare qualche passeggiata, durante le quali avrei approfittato per improvvisarmi infermiera, ma non c’è stato verso.
Fino a quando mi sono rivolta alle forze dell’ordine!
Interminabili rimbalzi, dai carabinieri alla polizia, fino ad approdare ai vigili che, dopo ore di attesa e sguardi diffidenti, hanno buttato giù un verbalino con quale hanno promesso avrebbero effettuato un sopralluogo.
Li ho visti, sempre dalla mia finestra, qualche giorno dopo.
Hanno fatto un giro del giardino e, sebbene avessi raccomandato loro di osservare le cosce per valutare lo stato si salute del cane, il tutto si è concluso con due sorrisi ed una stretta di mano.
L’indomani il padre padrone ha pensato bene di mettere un pannello di compensato davanti alle inferriate del cancello per impedirmi di avere qualsiasi contatto col cane.
E, soprattutto, per nascondere la propria bestialità al mondo.
Forse anche a se stesso.
Per un paio di mesi ho guardato Enrico dal mio terrazzo, sempre più lento nei movimenti, sempre più annoiato, sempre più rassegnato.
Ogni tanto fischiavo per fargli sentire la mia presenza, oppure mi avvicinavo al cancello e gli parlavo, anche se lui non poteva vedermi. Ma poi ho pensato che questa cosa fosse ancora più crudele: fargli percepire che c’ero, ma non sarebbero seguite né le mie carezze, né le crocchette.
Allora ho smesso.
Qualche mese fa ho visto il padre padrone mettere il corpo di Enrico dentro un sacco di spazzatura, di quelli industriali e spingerlo col piede facendolo rotolare fino alla macchina per caricarlo sopra.
Non so di preciso quando abbia smesso di vivere, ma sono certa che è morto solo, con gli occhi che vagavano alla disperata ricerca di chi gli potesse fare un’ultima carezza.
E sono anche certa di essere l’unica che abbia pianto per lui.
Da allora non è passato un solo giorno senza che pensassi, ogni volta che incontravo il padrone, “brutto figlio di puttana”.
Oggi lavavo i piatti e, mentre la paglietta accarezzava con decisione la pentola, vagavo con lo sguardo oltre la finestra .
Quello lì, il figlio di puttana, armato di scure, preparava dei ciocchi di legna per il camino. Ad un tratto si è fermato, immobile con l’accetta conficcata in un tronco. Non gli ho tolto gli occhi di dosso, mentre l’acqua calda quasi mi scottava le mani.
L’ho visto avvicinarsi al muro perimetrale, appoggiarsi per sorreggersi mentre le forze lo abbandonavano e poi accasciarsi al suolo.
Nessuno intorno che si accorgesse del malore ed io ci ho pensato su almeno una decina di secondi prima di afferrare il telefono e chiamare il 118.
E devo ammettere, non senza vergogna, che la tentazione di voltarmi dall’altra parte e continuare a lavare i piatti è stata forte.