Bisognerebbe chiedersi se i morti hanno pesi specifici diversi e, soprattutto, se le lacrime hanno raccordi fluviali sconosciuti. I nostri morti, quelli dell’ultima alluvione per intenderci, ce li portiamo dentro le nostre vite e ancora oggi continuiamo a camminare con la zavorra dei ricordi. Perché è giusto, perché è lecito, perché è accaduto davanti ai nostri occhi. Perché molti di noi avevano parenti, amici, conoscenti. Facevano parte, quei morti, del recinto del nostro ovile, dell’ombelico della nostra terra. Noi, per questo motivo, li abbiamo sentiti nostri e lo sentiremo per sempre. Bisognerebbe però ripensare alle cose e provare a cercare negli occhi degli altri il dolore che ci portiamo dentro le nostre tasche. Perché anche sette morti sono un terribile peso specifico. Quattordici occhi che non osservano più questo mondo, non si nutrono più di ossigeno, non sorridono, non abbracciano, non piangono. Poi, però, lentamente, quei morti, quei sette morti, camminano velocemente dalle voci principali delle news, cominciano a restringersi dentro i tagli bassi dei quotidiani e, tra qualche giorno, saranno solo un flebile ricordo. Anche per noi che conosciamo la pesantezza dei nostri morti. Il problema è legato essenzialmente alla conoscenza. Il “lontano” non ci riguarda, l’altrove è terra sconosciuta e se nelle Filippine ci sono duemila morti noi non riusciamo a soppesare quello strano peso specifico di quattromila occhi. Perché sono lontani e perché non hanno mai osservato la nostra terra. Ecco, quei sette morti bruciati, martoriati, consumati nella maniera più atroce e terribile sono cinesi. Quelli di Prato. Quasi invisibili, come sanno essere invisibili i cinesi. Con le loro stoffe, le tazze, quelle che noi chiamiamo ironicamente “cineserie”. E sappiamo che non è così. Però, quella acidità della sopravvivenza che a volte ci contraddistingue, quel cinismo stupido, quello scrollarci di spalle ci porta a dire: “Ecco, erano morti annunciate. Lavorano quindici ore al giorno, sono sfruttati, hanno rubato il lavoro ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figli. Se la sono cercata. Non conoscono le basi elementari sulla sicurezza Ognuno pianga i propri morti”. E, mentre lo diciamo, controlliamo un messaggio da un iphone, leggiamo dall’ipad, compriamo un giocattolo da Chicco e vestiamo il nostro bambino da Premaman. Tutti prodotti “made in China”. I morti, probabilmente hanno un peso specifico diverso e nella bilancia delle lacrime conta sicuramente la vicinanza alle persone. Vero. Però quei sette morti, quei cinesi, ci sono davanti per dirci che anche loro hanno diritto ad una dignità, ad un “onore delle armi” che noi, non riusciamo a dare perché preferiamo girarci dall’altra parte. E ci dovremmo semplicemente vergognare.
0 Comments
La veronica è un fiore, il fiore che simboleggia la partenza, l’addio, ma non so di quali addii narri la leggenda. Veronica Gelsomino, che nel nome porta l’allegoria di un destino scongiurato, è la ragazza di Priatu salvata da morte certa da Sebastiano, Massimo e Mario dalla foiba di Monti Pinu la notte del ciclone Cleopatra. Prima Sebastiano e Massimo, poi Mario, sentite le grida d’aiuto che giungevano dall’auto finita nella voragine, non hanno esitato a calarsi fin sotto, dentro l’impeto di una fiumana ululante, rischiando le proprie vite, per portare al riparo la vita di Veronica. Sebastiano e Massimo sono due ragazzi di Aggius che quella sera rientravano alle loro case dopo una giornata di lavoro e fatica; Mario abita lì, poco distante dallo squarcio della morte. Anche lui tornava a casa con la moglie e il figlio di pochi mesi. E’ bastato niente perché i tre ragazzi raggiungessero, lungo un percorso nella fitta boscaglia, i rottami dell’auto che teneva incagliati il corpo e l’anima di Veronica. Ieri ho chiesto a Sebastiano che mi raccontasse la storia, che definire di straordinario coraggio non è gratuita retorica. Questo disastro, come altri hanno raccontato prima e meglio, ha tirato fuori il buono di un popolo, che in tempi in cui si tira a campare, non è cosa banale. Mentre Sebastiano raccontava della tragica notte, ha parlato del gorgo d’acqua che precipitava dalle nubi in collera; della piena schiumante e prepotente ripresasi l’alveo impedito dalla stupidità dell’uomo; delle mani nude con cui hanno scavato dentro una carcassa di lamiere attorcigliate coperte d’acqua, pietrame e fango; ha ricordato delle proprie forze che venivano meno, dissipate oltre che dalla fatica, dalla paura e dall’angoscia di non farcela, perché l’acqua e i detriti stavano lì, per inghiottire un’altra vittima da sacrificare alla follia; ha ricordato dell’oscurità, dello sgomento per quelle rapide furenti, scaturigine di un lampo, invocando affinché si placassero. Sebastiano, Massimo e Mario hanno tenuto duro, fino allo sfinimento. Mentre scavavano con mani intirizzite e peste dalla furia della natura, parlavano con Veronica, chiedendogli e ripetendo se riuscisse a muovere gli arti, dandogli conforto e incitamento; le risposte, racconta Sebastiano, “erano per noi frustate di adrenalina; ci ripeteva che le gambe erano incastrate ma che poteva muovere le dita dei piedi e questo moltiplicava le nostre forze, finché non l’abbiamo liberata, già in stato di ipotermia. Abbiamo adagiato Veronica a terra, ricoperta dei nostri indumenti più pesanti, fradici e odoranti di fango. Poi anche per noi, esamini, una pausa, in attesa che altri soccorritori, con mezzi più convenienti, intervenissero per completare l’opera”. Solo dopo, con il sopraggiungere di altre torce, hanno colto che il demone della mala sorte si era nutrito del sacrificio delle tre vittime che giacevano dentro l’auto finita nello stesso precipizio, lì, a qualche decina di metri. Sebastiano mi ha raccontato anche questa pena, del rimorso che accompagna ancora Massimo, delle notti insonni ripensando alle fauci di quel demone, rimuginando per non aver potuto aiutare anche quelle altre tre persone; e mentre raccontava tutto ciò, coglievo nei suoi occhi un velo di amarezza, perché pare che ad altri siano riservati gli encomi a loro dovuti. Per carità nessuna medaglia, tutti e in tanti si sono spesi nel salvare altre vite dal turbine di Cleopatra, ma credo che questi tre ragazzi meritino almeno un'umile parola d'encomio da chi nel territorio rappresenta le istituzionili. Leggo di Nizzi che chiede le dimissioni di Giovannelli ed ho un moto vorticoso di pensieri che se mettessi nero su bianco ed affiggessi su questa pubblica bacheca mi varrebbero più di una denuncia per turpiloquio. Però ingoiando quelli più istintivi e genuini, mitigando quelli sinceri ed impulsivi, tacendo quelli più scurrili… mi sorgono un paio di domande e riflessioni. Anzi, più di un paio. Mi viene da pensare che, oltre a non essersi fatto vedere nelle zone alluvionate, lui e la sua amministrazione in qualità di artefici ed esecutori di magiche trasformazioni di terreni agricoli in terreni edificabili, di prodigiose costruzioni in zone ad alto rischio idrogeologico HI4, di edifici più che abusivi condonati con penali pagate in moneta sonante pensano di avere a che fare con dei rimbambiti? Con una massa di decerebrati? Con gente che non conserva memoria del passato? Io credo che se avesse un minimo di pudore dovrebbe tacere! Se avesse un minimo di dignità andrebbe a nascondersi! Se avesse avuto un minimo di coscienza si sarebbe fatto vivo durante il disastro! Ma credo anche che se mio nonno avesse cinque palle sarebbe un flipper! L’economia di mercato - la cui banale sintesi si appoggia alla necessaria e “naturale” fissazione del prezzo di qualsiasi bene o servizio scambiato in base al “libero” gioco della domanda e dell’offerta - è una faccenda dannatamente seria, per molti, troppi, motivi. Perché storicamente ha dimostrato di vincere sull’altra proposta storicamente determinata nei suoi reali contorni e contenuti, l’economia pianificata. Perché è diventato un meccanismo pervasivo, che ha tracimato la sfera dell’economia invadendo contesti umani regolati da altri principi, le sfere più intime della nostra vita dove ampio è sempre stato il posto della reciprocità, del dono e della solidarietà, o quelle che necessitano di regole e insieme di succo etico. Perché l’orizzonte del profitto individuale, il “malloppo del tutto per sé stessi e gli altri si fottano” è diventato sostanza pedagogica profusa in ogni segmento della vita sociale, in ogni momento importante dei processi di socializzazione primaria e secondaria, quel percorso di relazione con chi ci insegna “cosa dobbiamo essere, come dobbiamo comportarci, cosa dobbiamo aspirare a diventare” in questa reale, contingente, società. Allora non deve sorprendere che molti economisti (anche quelli che stimo, e sono pochi..) rispondano con questa affermazione di evidente dominio della presenza del “libero gioco della domanda e dell’offerta” a chi, allibito, chiede spiegazioni al perché alcuni commercianti di Olbia abbiano fatto "uno sporco gioco", ovvero abbiano fatto immediatamente lievitare i prezzi degli stivali di gomma e delle pompe tira acqua: “c’è stato un aumento della domanda”, la naturale e semplice risposta, quasi banale nel suo essere disancorata a qualsiasi contesto in cui si sono sviluppate le vicende di cui si discute. In qualsiasi situazione della vita quotidiana, che si tratti di normale e sereno scenario o catastrofico e doloroso paesaggio come quello che la dura realtà restituisce di Olbia e della Gallura tutta, il prezzo dei beni è fissato dal gioco della domanda e dell’offerta: di che cazzo vi indignate? Vi andava bene in tempi di pace, in tempi di gioia, in tempi di sole e perché non dovrebbe andare bene ora, in tempi di pioggia, in tempi di buio, in tempi di disperazione, in tempi di necessità e bisogno diffuso, in tempi di dolore, in tempi di lutto? Io li capisco gli economisti, capisco che ci siano delle verità intangibili a tutto, anche al dolore e alla contingente difficoltà umana come quella che una fetta considerevole di cittadini isolani sta sperimentando in questi giorni. Li capisco ma non riesco ad accogliere questa spiegazione nella mia sfera etica, e non era necessaria questa incredibile disgrazia per rimarcarlo a me stesso. Li capisco, perché è proprio la sfera etica che quasi tutti gli economisti hanno abbandonato nella spiegazione del fare economico, spiegazione che è diventata anche e soprattutto materiale per la concreta "costruzione" del fare economico: niente di umano, di culturale, di affettivo, di etico, niente di niente deve disturbare il libero gioco della domanda e dell’offerta: niente regole, niente valori. Eccetto uno, quello del “profitto per sé-gli altri si fottano”, del profitto ora e subito. È questa la logica che ha vinto, purtroppo; è questo il pensiero che, vincendo, è diventato paradigma diffuso e accolto in ogni parte del globo. Cosa è la dissipazione dei nostri beni comuni appena realizzata in Consiglio regionale se non figlia di questa logica? Che cosa è la diffusa tendenza a trattare il territorio come se fosse “cosa nostra” e non di tutti e dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, se non figlia di questa logica? Cosa è l’ormai residuale presenza e la residuale difesa del “bene comune”, se non figlia di questa logica? Niente regole, questa è la sintesi. Molto probabilmente, appena tornerà il sole, questi commercianti che non hanno fatto richiamo nel propri intimo se non a questa logica, saranno economicamente puniti dai consumatori eticamente avvertiti. Molto probabilmente per un po’ di tempo nella memoria collettiva si conserverà traccia del dominio di questa sensibilità mercantile nel momento del bisogno e della difficoltà. Poi le cose torneranno come prima, o come adesso, come nel momento in cui si pensa che sia “assolutamente nell’ordine delle cose economiche” che un paio di stivali vedano crescere in modo smisurato il loro prezzo laddove tutto è acqua e lacrime e tu sei uno dei pochi a disporne per la vendita. È normale dicono molti, troppi, economisti. No, non lo è, dicono tutti quelli che si dimenticano per un attimo del “profitto per sé-si fottano gli altri”, fanno appello ad altre regole, si danno delle regole e danno una mano d’aiuto, senza alcuna moneta in cambio se non un grazie. Mi rivolgo a te, brutto farabutto. Non fare finta di nulla. E’ vero, la gente da quest’alluvione è stata piegata, messa in ginocchio, ma non accecata. Brancola nel fango, non nel buio. Dico a te, spregevole e avido commerciante che, spinto dall’idea di guadagnare quattro spiccioli in più, hai triplicato il prezzo delle pompe, degli scaccia acqua, degli stivali corti, lunghi e stivaloni, degli stracci e degli ombrelli. Non ti azzardare a insozzare, con la tua misera cupidigia, l’esempio di solidarietà e unione che stiamo dando all’Italia perché non ci riuscirai. A noi, nella nostra situazione di disagio, mancano molte cose, a te, nel tuo egoismo, mancano tutte. Lo sappiamo bene che quando una comunità si ritrova in una situazione di emergenza, come quella che stiamo attraversando, possono accadere due cose: scopre e manifesta il valore della solidarietà oppure esalta il carattere sfavorevole e l’egoismo. Noi siamo tutti quanti, uniti e stretti, nella prima alternativa e tu non hai né la forza né l’importanza per farci transitare nella seconda. Sei solo e minuscolo, non riuscirai col tuo squallido esempio a far pendere l’ago della bilancia, non arriverai a trasformare mani protese in mani che arraffano. Noi domani laveremo i piedi sporchi di fango, spazzeremo il sudiciume dalle cantine e la sporcizia dagli scarponi. Ma a te, per ripulire la tua coscienza, non basterà una vita intera. Era un sofferente mentale Brian Claunch che viveva a Houston; era un sofferente mentale a cui erano stati amputati un braccio ed una gamba; era un sofferente mentale, senza due arti e costretto sulla sedia a rotelle. La Sorte a volte si accanisce senza pena sulla sostanza umana, ma in questo caso la storia racconta come sia andata oltre la vertigine, negando al povero Brian la possibilità di continuare a respirare la sua sofferenza. E’ stato ucciso a settembre dell'anno scorso da un poliziotto intervenuto, insieme a una squadra di colleghi, nella casa famiglia che lo ospitava a seguito della chiamata di uno dei responsabili della struttura: Brian era agitato perché reclamava soda e sigarette. Le reclamava come spesso fanno le persone in difficoltà mentale: agitandosi. Ma agitandosi troppo ha fatto un gesto che non è piaciuto ai cops: si agitava tenendo in mano un oggetto metallico. Invece di usare il Taser o altri metodi meno violenti, uno dei cops (tale Marin) gli ha semplicemente sparato e lo ha ucciso. In onore alle procedure, “dopo la rivoltellata” si è andati a verificare la natura pericolosa dell’oggetto agitato dalla mano di Brian. Un coltello? Un oggetto contundente? Una pistola tascabile? Un laser? No, niente di tutto ciò: era una banale penna a sfera. Sulla violenza come metodo di lavoro ordinario utilizzata dai cops nella gestione dei rapporti “complessi” con la cittadinanza sono stati scritte ormai diverse piramidi di articoli: i cops non vanno per il sottile; non amano discutere; prima si spara e poi si discute... Ma in questo caso le condizioni “dell’avversario”, visibili, oggettive, palpabili nella loro comprovata evidenza di disparità, enormi nelle possibilità di portare qualsiasi tipo di offesa e danno, pongono interrogativi seri su ciò che anima il gesto dei responsabili dell’ordine pubblico negli Usa (e non solo negli Usa..). Quale la giustificazione per un gesto così abnorme? Quali le possibili parole per descrivere le motivazioni dell’agente Marin? Se leggete sui newspaper americani troverete diverse spiegazioni date dai giornalisti a seguito delle dichiarazioni ufficiali della polizia di Houston, ma solo una può apparire convincente: Marin era nelle medesime condizioni di Brian. Certo, una sofferenza mentale meno visibile, meno oggettiva, stress “comprovato” da precedenti accadimenti violenti subiti in servizio dal cop in questione. Ma, verrebbe da replicare, .. è noto: il mestiere del poliziotto è un po’ più rischioso di quello del giardiniere.. Questa mi sembra l’unica fondata possibilità di spiegare con senno una situazione senza senno: due persone in difficoltà che si affrontano e una, quella con più potere, prevale sull’altra. Non riesco a trovarne altre. Non riesco a pensare quali pensieri e emozioni possano agitarsi nella testa e nell’animo di una persona che è stata addestrata a gestire situazioni complesse, violente e pericolose. Sparare e uccidere un disabile sofferente mentale solo perché il suo corpo si rifiuta di arrestarsi al comando netto dei tuoi ordini. In una distanza di potere e possibilità di offesa straordinaria, riscontrabile probabilmente solo nelle situazioni descritte da Primo Levi e Bruno Bettelheim, solo questa parità di condizioni di sofferenza può spiegare l’inspiegabile crudeltà del gesto. Al di là di ciò, rimane solo un omicidio. Un omicidio legale.r effettuare modifiche. Scrivo questo post per far sapere a Fabio e Mariolina Pileri che non sono soli: si può morire di dolore, ma se tutti condividiamo un briciolo della loro sofferenza forse possiamo renderla più sopportabile. Fabio e Mariolina erano i genitori di Pietro, morto il 14 novembre del 2004: aveva diciassette mesi, per tre giorni è stato rimbalzato tra ospedali e i reparti prima che una banale occlusione intestinale lo spegnesse. Esattamente nove anni fa. Ho pensato a lui mentre sullo schermo del mio computer scorrevano vecchie immagini di bambini uccisi dai bombardamenti a Gaza. Per loro, come per Pietro, la morte ha dei perché che la rendono ancora più inaccettabile: che sia un missile che colpisce a casaccio o la superficialità di medici svogliati, cosa c'entra la vita di un bambino? Cosa c'entra la morte con un bambino che si affaccia al balcone luminoso della vita? Fabio e Mariolina mi conoscono appena. Li ho incontrati in un piovoso pomeriggio di novembre nella loro casa di Olbia, pochi giorni dopo la morte del loro bambino. Un collaboratore del giornale mi aveva chiamato al mattino presto per segnalarmi che la città era invasa di manifesti, fatti stampare da Fabio per gridare al mondo la sua rabbia. Li contattai e li andai a trovare quello stesso pomeriggio. Ricordo la loro compostezza, una sala dai mobili severi, il silenzio gelido tra le parole, il dolore come un energumeno seduto al tavolo con noi. Ricordo il racconto di Mariolina, lucido ed efficace, tutte le carte della tragedia ordinate diligentemente davanti a lei. Un racconto fitto di particolari, di sguardi, di carezze, di disperazione. Un racconto nel quale, ad un certo punto di un'attesa inutile su un lettino, Pietro chiede alla mamma un biscotto. Mariolina domanda il permesso ai medici, ma loro le spiegano che non era il caso perché il bambino, di il a poco, sarebbe stato operato. Pietro muore qualche ora dopo, senza che quel suo ultimo desiderio venisse soddisfatto. Senza un perché, come i bambini di Gaza. Lasciata la casa, mia moglie mi attendeva in macchina. Voleva che le raccontassi di quell'incontro, ma in quel momento non avevo parole e me ne rimasi zitto. Nove anni dopo, la verità giudiziaria non ha attribuito a nessuno la responsabilità di quella vita spezzata. Ma tutti noi sappiamo che la verità è un'altra, così come sappiamo che il senso di giustizia di un paese civile non può accettare che la morte di un bambino sballottato tra reparti e ospedali per giorni venga imputata ad una fatalità. E non si può neppure accettare che il tempo consumi, giorno dopo giorno, il diritto alla verità. Non succederà per Fabio e Mariolina, non deve succedere per tutti coloro che in questa storia si sono sentiti toccati. Da genitori, da cittadini di un paese civile. Io vi odio, voi razzisti. Detesto la patetica presunzione che vi fa sentire proprietari di un luogo. Disprezzo l’uso improprio degli aggettivi possessivi con cui vi riempite la bocca: “il mio paese”, “la mia terra” e che scagliate addosso agli stranieri. Non già per mostrare con orgoglio il luogo che vi ospita, ma per sottolineare quanto la loro presenza vi sia sgradita. Poveri coglioni che vi sentite sminuiti e derubati di un luogo se qualcun altro lo calpesta. Ma se poi quel qualcun altro è un magnate russo o un emiro arabo che, senza nemmeno pulirsi i piedi sullo zerbino prima di entrare, viene a violentare la VOSTRA terra con brutali colate di cemento, allora quello lì diventa un benefattore. Vi odio perché non siete razzisti nei confronti di un’etnia, lo siete nei confronti della miseria. Vi odio perché siete convinti che il pianto di un bimbo rumeno sia meno importante di quello di un italiano. Vi odio perché è grazie a voi che vostro figlio non si siede nel banco col compagnetto pakistano. Perché la differenza tra sé e quell’altro non la vedeva finché non gliel’avete mostrata voi. Vi odio razzisti, perché il colore della pelle non rappresenta un problema quando ammirate il culo alto e sodo della sinuosa ambulante senegalese e, per scoparvela, del vostro razzismo ve ne sbarazzereste volentieri. Insieme alle mutande. Vi odio razzisti, rifiuto il vostro sguardo carico di sufficienza nei confronti degli immigrati, a meno che non si chiamino Balotelli e stiano tirando un rigore di domenica pomeriggio. Anche se quel rigore ha la pelle nera. E infine vi odio perché, disprezzando la vostra categoria, fate diventare razzista anche me! D'ora in poi, i carabinieri in servizio - magari anche se impegnati in un inseguimento ad una banda di criminali - dovranno "accelerare e decelerare gradualmente", "evitare brusche frenate ed evitare inutili cambi di direzione", "inserire al più presto la marcia superiore" e, strepitosa perla finale, "spegnere il motore quando si può, ma solo a veicolo fermo". I tempi sono quelli che sono e bisogna fare economia, del resto. Nelle settimane scorse il Comando generale dell'Arma dei carabinieri ha inviato a tutte le caserme italiane una circolare contenente alcune disposizioni sulla guida delle auto di servizio da parte dei militari. L'obbiettivo, come si legge nella prima delle quattro pagine del documento, è principalmente uno: risparmiare carburante per incidere il meno possibile sul bilancio dello Stato, cercando nel contempo di ridurre l'inquinamento ambientale come richiesto dall'Unione Europea. Non si tratta solo di indicazioni generiche, perché il personale in servizio ha dovuto firmare per confermare di avere preso visione della circolare e ai luogotenenti delle caserme è stato chiesto di far rispettare queste consegne. Benché abituati ad essere nei secoli fedeli, stavolta molti dei carabinieri hanno mugugnato e si sono sentiti offesi da regole formulate in termini piuttosto ingenerosi verso l'intelligenza dei destinatari. Anche perché, dicono in molti, se si volesse perseguire una più oculata gestione delle risorse bisognerebbe principalmente aggredire certi sprechi impunemente compiuti dai vertici dell'Arma. Prevedo fin d'ora quale potrà essere la difesa d'ufficio dell'Arma: 1. Sono indicazioni dettate dal semplice buon senso; 2. Servono a ridurre le emissioni ambientali; 3. Ce lo chiede l'Europa. Ma quello stesso buon senso ci suggerisce trattarsi di semplici tagli. Risparmiando sul gasolio e cercando di centellinare l'uso delle auto militari cui lo Stato affida la repressione del crimine. Italia, anno 2013. Alla stazione di Belluno, nell’anno 2013, si presenta un turista svedese di 40 anni. Deve prendere il treno locale per Conegliano delle 15.06. Ma quel treno non ha la pedana che gli consentirebbe di salire. E non c’è neanche personale per aiutarlo a salire. Glielo spiegano, con garbo. Lui non capisce, s’incazza. Si aggrappa alla maniglia esterna e impedisce al treno di partire. Arriva la polizia ferroviaria. Gli dicono di attendere, che più tardi arriverà un treno dove lui potrà salire. Lascia la presa e aspetta. Salirà sul treno successivo ma viene segnalato per interruzione di pubblico servizio. Io lo capisco, il turista svedese. Anche perché sono stato ospite della sua terra, qualche anno fa. Capisco perché ha reagito in quel modo. In Svezia tutti i servizi pubblici sono pensati per i disabili. Loro sono cittadini come gli altri e non è pensabile che siano esclusi dai servizi pubblici. Anche e soprattutto da questo si misura la civiltà di uno Stato. (Considerazione al bel post di Gianpaolo Cassitta) La storia di zio Vittorio ricorda tanto la storia di mio bisnonno Luigi Mucedda che nonna Maria Caterina non perdeva ricorrenza per ricordare; è la storia di molti di noi, un pezzo di storia dell’umanità, è tanta storia della Sardegna in Sardegna e fuori dalla Sardegna. Zio Vittorio racconta: “quando qualcuno vi dice che i minatori difendono il posto di lavoro ditegli che non è vero. Difendono solo la dignità” La dignità dei singoli e dell’intero genere umano credo non debba mai essere lambita da mutilazioni, credo si tratti del valore più alto, assoluto e inalienabile. Oggi non sono sicuro che imprigionarsi nei pozzi carboniferi significhi difendere la dignità di coloro “che hanno regalato vita e appesantito .. il cuore”. Oggi dobbiamo con forza, assieme a questi lavoratori, conquistare alla politica, al sindacato, alla cultura, alla chiesa che per quest’Isola è possibile un altro lavoro”, lavoro che restituisca la luce del cielo e separi dall’oscurità, perché lì, sotto le viscere del suolo, cresce solo la morte dell’anima, prima ancora del trapasso. Solo un “altro” lavoro renderà giustizia, solo quando saranno riemersi per un metro sopra l’inferno, allora tutti i Vittorio e i Luigi di questa terra vedranno riparata la dignità e ghermito un altro pezzo di libertà. Di Francesco Giorgioni Li chiamano atti di liberalità. È l'azione attraverso cui un privato decide di regalare del denaro o altri beni ad un Comune. In cambio di cosa, però? Una manifestazione di riconoscenza e amore verso quella che ogni facoltoso turista sbarcato in Costa Smeralda dichiara pubblicamente essere "la sua seconda patria"? Oppure la banconota che il camionista lascia scivolare distrattamente tra i documenti del portafogli, quando viene fermato al posto di blocco? L'indagine della Procura di Tempio sui rapporti tra Comune di Arzachena e soggetti privati - primo tra i quali il Consorzio Costa Smeralda - mira proprio a comprendere la natura di queste donazioni e avanza un'ipotesi di reato: corruzione. Cosa sono queste donazioni? Sono, ad esempio, la società Sardegna resort del Consorzio Costa Smeralda che regala 75 mila euro al Comune perché questo assuma qualche vigile urbano in più; sono il magnate russo che omaggia di un'ambulanza il Comune, oppure il petroliere iraniano che recapita all'amministrazione tutto l'occorrente per dare una copertura fissa al circolo tennistico locale; sono la società Porto Cervo Marina, titolare dello scalo turistico di Porto Cervo, che per conto del Comune assume due addetti all'infopoint del Comune situato presso l'Harrod's village installato quest'estate. Beneficenza o altro? Nessuno se l'è mai chiesto, durante le fastose cerimonie allestite per celebrare queste regalie. E nessuno si è mai chiesto, ad esempio, per quale motivo una parte della penultima amministrazione comunale avesse spinto tanto per riconoscere la cittadinanza onoraria al magnate uzbeko Alisher Usmanov. Quel che risulta è che i trasferimenti di beni registrati negli ultimi tredici anni sono stati richiesti dalla Procura e sottoposti a sequestro. Insomma, questo genere di attività compiute dalle ultime quattro amministrazioni comunali sono al vaglio della magistratura. L'Harrod's sembra essere solo un singolo aspetto dell'indagine, però significativo se messo in relazione al valzer dei dirigenti al Comune di Arzachena: in tempi diversi, l'ex capo dell'Ufficio tecnico Antonello Matiz e l'ex comandante della Polizia locale Giacomo Cossu avevano opposto il loro diniego alla richiesta di permessi urbanistici e commerciali per la realizzazione del villaggio amovibile assemblato al porto vecchio. Ex dirigenti, perché destituiti dal loro incarico a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro. Per spiegare bene il contesto nel quale si muove il procuratore Fiordalisi, occorrerà uno zoom sulla realtà di Arzachena e della Costa Smeralda e sulle relazioni tra principato di Porto Cervo e gli amministratori comunali. Negli ultimi decenni, a decidere le sorti politiche del centro gallurese sono stati - perché rappresentati o per presenza diretta - costruttori e titolari di aziende alimentate dall'indotto dell'edilizia: soggetti ovviamente interessati al ricco mercato di appalti della Costa Smeralda e, di conseguenza, ad intrattenere rapporti più che amichevoli con il Consorzio fondato dall'Aga Khan e con i suoi più munifici soci. Basta leggere i nomi delle ditte impegnate nei lavori di ristrutturazione degli alberghi Starwood - licenziati quattro anni fa dal Comune - per avere una prova di questi intrecci. Sul piano politico, la forza del Consorzio si manifesta con la costante presenza nelle varie maggioranze di almeno un rappresentante fatto eleggere dal condominio di Porto Cervo. Un paio di legislature fa, addirittura, il capogruppo della maggioranza fu individuato in un dirigente del Consorzio, scelta assolutamente legittima ma sintomatica della simbiosi tra municipio e il governo del sodalizio smeraldino. Per farla breve, è prevedibile che questo mescolarsi di pubblico e privato fornisca prossimamente molto materiale di lavoro al nuovo procuratore. Non che in passato siano mancati i mugugni per le digressioni di amministratori che, spesso, fingevano di confondere il loro ruolo istituzionale con gli affari privati. Ma finora tutto era filato liscio e nessuno aveva avuto, ufficialmente, nulla da ridire. Poi è arrivato Domenico Fiordalisi. Ci camminava malissimo in quelle enormi scarpe, troppo grandi per i suoi minuscoli piedini. Forse le aveva sfilate al cadavere del padre e probabilmente custodite come un bene prezioso, prima di scegliere che potevano ancora svolgere la loro funzione di protezione delle estremità. Calzature troppo pesanti per essere sollevate da due gambette spossate, che già si facevano carico di sorreggere malamente il piccolo corpo al quale erano attaccate. Calzature striscianti che hanno debolmente percorso interminabili quartieri alla ricerca di qualcuno a cui vendere un po’ di spazzatura per qualche spicciolo. Lui si arrangiava così per rimediare del cibo, giorno dopo giorno. Finché non è più riuscito a vendere la sua spazzatura, perché stanco, perché affamato, perché debole e incapace di stare in piedi, perché la testa gira quando hai lo stomaco vuoto da giorni, perchè i pensieri diventano confusi quando sei solo al mondo. Si è seduto sul marciapiede, ha aspettato che i crampi della fame passassero prima di accasciarsi al suolo e addormentarsi per sempre. E’ una delle tante storie sullo sfondo di una Siria povera, disperata e armata. E’ una delle tante storie di bambini derubati di tutto: della loro famiglia, del diritto di essere bambini, di qualcuno che li protegga, della loro dignità. E’ una delle tante storie di bambini brutalmente defraudati della loro piccola vita. Una caduta libera di undici piani. Ha scelto di affrontare il vuoto piuttosto che continuare a vivere in una società dalla quale si sentiva rifiutato. Era uno dei tanti gay di ieri, di oggi e di domani. Uno dei molti ragazzi al quale avremmo dovuto garantire il diritto di vivere una giovinezza spensierata: rientrare a casa e chiudersi nella sua camera per scambiare messaggi su whatsapp con la fidanzatina, cimentarsi in tornei alla playstation con gli amici, studiare e fare prove tecniche di preparazione al suo avvenire. Avrebbe potuto essere un mio alunno, un amico di mio nipote o il figlio di una vicina di casa. Lui era figlio di qualcuno, sì! Figlio sfortunato di una società che guarda con denigrazione al diverso. Vittima di quel berlusconismo becero che afferma lapidario “meglio puttaniere che gay”. Martire di quei valori preistorici in difesa dei “sani valori della famiglia tradizionale”. Capro espiatorio di dichiarazioni del tipo “meglio noi del centrodestra che andiamo con le donne, che quelli del centrosinistra che vanno con i culattoni”. Asserzioni rovinose come bombe a orologeria, che s'insinuano sottopelle e restano lì, nascoste come un herpes, pronte a saltare fuori in un attimo di sconforto con la potenza di una detonazione. Lui era il figlio sventurato di una collettività che esige dimostrazioni di forza e indistruttibilità, che quotidianamente ti sfida a braccio di ferro in snervanti gare a eliminazione diretta. Una comunità che pretende esemplari omologati e vincenti. A qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo. Anche quello dei nostri figli che, sentendosi inadeguati, si lanciano nel vuoto. E' accaduto a Lisbona alcuni giorni fa. Gli automobilisti hanno trovato tutti i posti disponibili occupati da sedie a rotelle. Le carrozzine recavano i seguenti messaggi: "Torno subito" "Mi ci vuole solo un po’" "Sono andato a prendere un caffè". Perché la protesta, il dissenso e le lamentele costituiscono il linguaggio di chi ha destinatari intelligenti. Ma, talvolta, con interlocutori maleducati, per capirsi è necessario usare lo stesso codice. Perché è sinonimo di civiltà sapere quando sia opportuno essere incivili. |
Archivi
July 2014
|