No, dico, prova ad andarci tu ogni giorno a scuola e incontrare i loro sguardi di sufficienza e di sberleffo. Quando le prese per il culo cominciano già nel giardino della scuola e sai che proseguiranno per tutta la mattina. Non lo sai cosa significa? Devi provare per capirlo. Entri in classe, poggi lo zaino sul banco e, visto che la campana non è ancora suonata, loro, i bulli, non hanno limiti. Danno il via alle loro prese in giro, i coretti, i soprannomi. E ridono. Cazzo, ridono tutti quegli stronzi. Tu non sai che fare, capisci che sei solo contro il gruppo. Provare a contrastarli con la loro stessa arma? Azzardi una presa in giro a tua volta. Ti fai forza, afferri il coraggio a due mani e rispondi con una timida presa in giro. No, sei troppo titubante, il cuore che martella come un tamburo. Non sei stato affatto credibile. Hai forse peggiorato le cose. - Buuuuh, ma sentilo! – E giù tutti a ridere. Cosa fai, cazzo? Cosa puoi fare? Sei solo. Contro tutti. Non puoi sapere cosa significa. Devi provare per capirlo. Il docente fa il suo ingresso in aula, i coretti si trasformano e diventano bisbigli. Ma non cessano, no. Lui non li sente, sta compilando il registro, ma tu li avverti nitidi, non smettono, sono presenti alle tue spalle. Sono un mantello che ti avvolge, ti circonda. Sono il sordo ansimare di animale rabbioso che studia la strategia d’attacco. E’ il ticchettio della sveglia mentre cerchi di addormentarti. Finché non lo senti va tutto bene, ma nel momento in cui lo percepisci è finita. Non smetterai di distinguerlo da tutti gli altri rumori. Tic tac. tic tac. La tua rabbia aumenta. E con lei anche la frustrazione. Il senso di impotenza occupa ogni angolo e sfratta la speranza. L’illusione che domani la musica possa cambiare è solo un’illusione. Non puoi sapere cosa significa. Devi provare per capirlo. Il professore ti chiama all’interrogazione. Ridacchiano quelli lì, appostati come predatori, pronti a cibarsi di ogni tuo errore. Stanno apparecchiando una tavola dove le tue imprecisioni, i tuoi sbagli, i tuoi silenzi alle domande della verifica diventeranno cibo. Piatti succulenti dei quali nutrirsi avidamente e poi ruttare davanti alla tua faccia. E l’ansia per l’interrogazione si somma all’angoscia di servire altre pietanze di quel lurido pasto a quegli schifosi commensali. Non puoi sapere cosa significa. Devi provare per capirlo. E poi, quando non trovi alcuna via d’uscita, finalmente decidi di dirlo a qualcuno. Chiami un docente, gli racconti qualcosa. Non hai il tempo per fargi un resoconto minuzioso. Non hai avuto il tempo di scegliere il docente giusto, perché avevi fretta. Perché eri esasperato e non ce la facevi più. Perché talvolta ci vuol coraggio ad uscire dal bozzolo nel quale, per proteggerti, ti eri rintanato. E lui ti ascolta, ma tu lo vedi che lo sguardo è perplesso. Che non si è messo nei tuoi panni. Che ti capisce razionalmente, ma non emotivamente. Dov’è l’empatia? Dov’è quell’abbraccio che aspettavi? Volevi sentirti dire: - Non preoccuparti, ci penso io a proteggerti. Non hai più nulla da temere! – E invece sminuisce il tuo dramma. Ti dice di lasciar perdere, che sono ragazzate e che se fai finta di nulla tutto si smonterà col tempo. Cosa dici, cazzo. Cosa dici? Hai sbagliato mestiere, bello mio. Dovevi lavorare in un ufficio, mettere timbri per 8 ore al giorno, senza entrare in contatto con alcun essere umano. Potrebbe essere tuo figlio, tuo nipote. Gli diresti di far finta di nulla? Testa di cazzo! Non puoi sapere cosa significa. Devi provare per comprenderlo. Non fermarti ad un docente, perché a fronte di un menefreghista arido con un sasso di fiume al posto del cuore, ce ne sono cento il cui cuore è, invece, palpitante e pieno d’affetto per gli alunni. Cercane un altro, parlane con qualcuno. Non tornare dentro al tuo bozzolo pensando che non ci sia una via d’uscita. Troverai chi ti protegge e combatte con te. Chi afferra per i bavero quegli stronzetti e conosce le strategie per farli tacere. Perché il rimedio c’è sempre. Ed è collocato dalla parte opposta del silenzio. Fu solo fortuna? Nella storia dello sport, la vittoria alle Olimpiadi invernali di Lillheammer nello short track dell’australiano Bradbury viene considerata, in assoluto, come quella frutto delle più incredibili e fortunose coincidenze. Pensate che in Australia hanno ormai coniato un motto, “fare alla Bradbury”, per indicare la riuscita fortunosa e miracolosa di qualsiasi cosa. La scena è resa celebre in Italia dai commenti fuori campo di un gruppo di comici, la Gialappa’s Band, che ridicolizzano l’atleta con battute sarcastiche. http://www.youtube.com/watch?v=u7wUockPJM0 - Bradbury, nei quarti di finale, passa il turno grazie alla squalifica di un atleta che ne aveva spinto un altro fuori pista. In semifinale ne cadono due e lui giunge secondo. Incredibile, Bradbury va in finale, dove si ritrovano 5 atleti, anziché i 4 previsti, per la riammissione di uno degli atleti caduto in semifinale con una discutibile decisione dei giudici che non sembrano esenti da un certo favoritismo. Sono 5 ma in realtà sembrano 4, dato che l’australiano resta avulso da una competizione che schiera dei grandi campioni in una finale combattutissima e di straordinario livello tecnico. Accade dunque il miracolo: all’ultima curva 3 atleti, lottando tra loro a limite del regolamento e forse oltre, si agganciano e cadono, il quarto ci rovina sopra, e Bradbury, restato a distanza di sicurezza, trionfa. Una clamorosa, pazzesca, incredibile, anche se simpatica, ingiustizia sportiva. Fu solo fortuna? Io ci ho visto anche altro. Prendiamo, dunque, quella giovane promessa sempre dello short track che, dopo aver vinto, da giovanissimo, diverse medaglie in competizioni mondiali, ebbe la sfortuna, durante una gara, di trovarsi, dopo una caduta, con la lama tagliente del pattino di un avversario sopra l’arteria femorale. L’atleta nell’occasione rischiò la vita, 4 litri di sangue persi e 111 punti di sutura, e una lunghissima fisioterapia per recuperare la muscolatura della gamba devastata e tornare a gareggiare. La giovane promessa ci impiegò due lunghi anni per tornare quasi ai suoi livelli quando, durante un allenamento, per evitare di tranciare con i pattini un compagno caduto davanti, lo saltava rocambolescamente fratturandosi due vertebre cervicali. Il pattinatore rischio la paralisi, ma grazie alla volontà, con molti sacrifici e determinazione, dopo due anni, riprese persino a pattinare. La carriera del non più giovane atleta sembrava segnata, gli sponsor lo abbandonarono, i tecnici lo sconsigliarono di proseguire, i genitori, preoccupati per la sua salute, lo invitarono a cercarsi un lavoro meno rischioso. Tuttavia, menomato nel fisico e nello spirito, provò ugualmente a proseguire la sua carriera, con molta fatica, perché non era più in grado di reggere pesanti carichi di allenamento e neppure l’equilibrio era più lo stesso. Tuttavia, grazie alla sua caparbietà e con sacrifici inumani, riuscì lo stesso a qualificarsi per le Olimpiadi di Lillhehammer. E qui inizia una storia che non è più sarcastica e ridicola, ma è fatta di umiltà, di intelligenza tattica, e anche, soprattutto, di correttezza. Oltre che, naturalmente, di determinazione. Perché, spesso, raccontare una storia senza conoscere gli antefatti, ci fa capire solo un lato della vita, magari il più scialbo e il più superficiale. E la storia completa di Steven Bradbury non è così sciocca e ridanciana come ce l’hanno voluta descrivere. E ci ricorda che, in fin dei conti, si può anche sfuggire, con un po’ di fortuna, ad un destino crudele. Ma solo volendolo davvero con tutte le forze. Che fortuna e sfortuna non sono proprio cieche, ma solo un po’ miopi.. Nel 2012 Matteo Renzi si presentava alle primarie del PD per diventarne segretario, perdendo la battaglia contro Bersani. In quell’occasione stilò un programma dallo slogan futurista, “ Matteo Renzi, adesso!”, un documento di 26 pagine su economia, lavoro, pensioni, scuola, università. L’università. Nel sottoparagrafo del capitolo “Investire sugli italiani”, Renzi sondava in una trentina di righe le arcinote anomalie del mondo accademico: mancanza di fondi, difficoltà di accesso alla ricerca, e così via. Nel dicembre 2013, nuove primarie che lo videro, stavolta, vincitore. Lo slogan diventava “Renzi, L’italia cambia verso”. Nel documento congressuale la parola università scompariva per far spazio a riferimenti al mondo della scuola degni del libro Cuore di De Amicis. Ora Renzi è segretario del PD e presidente del Consiglio. L’ ora della “ Svolta Buona” è arrivata. Il documento relativo alle riforme da attuare nei 100 giorni assomiglia più ad un volantino pubblicitario che ad un documento programmatico. Le offerte allettanti non mancano. Vendesi auto, quasi nuova, di colore blu. Una casa per tutti. In tema di ricerca, l’intenzione di raddoppiare i fondi per il credito d’imposta per aziende e attività che puntino sulla ricerca. E se il problema dell’università italiana andasse oltre la pur cronica mancanza di fondi? Il rapporto sulla valutazione degli atenei pubblicato qualche giorno fa lancia l’allarme su quello che si sa da un pezzo: la laurea triennale è una leggenda: due terzi degli studenti impiega più di 5 anni per ottenerla, quando tutto va bene. Provate, in effetti, a spiegare ad un francese lo status dello “studente fuori corso” di 5, 6, 7 anni. Impiegherà parecchio a capirlo. Perché se ti chiami Jean François e vivi a Lione, mediamente riesci a conseguire una Licence, una laurea triennale, all’età media di 23 anni. Sempre meglio dei di 25 o 26 dello studente italiano medio che potremmo chiamare Paolo. I dati Eurostat del 2010 relativi all’età media degli studenti del tertiary education level, l’istruzione universitaria, vedono l’età media dello studente universitario italiano aggirarsi intorno ai 23 anni, cifra inferiore a quella di paesi come Germania, Norvegia, Danimarca. Il dato apparentemente positivo cela in realtà la spiegazione che in questi paesi non è poi così raro imbattersi in uno studente che decide di iscriversi all’università dopo avere già trovato un impiego, evento più unico che raro in Italia. Questo testimonia allora lo scollamento tra mondo del lavoro e università, e i dati Eurostat a riguardo sono impietosi: la percentuale di occupazione tra i ragazzi italiani tra i 25 e i 29 anni che possiedono un’educazione universitaria è, secondo i dati del 2012, pari al 55%. Per la Francia la percentuale di attesta all’84,6. Il nostro Paolo, insomma, rispetto a Jean François, rischia di uscire dall’università un po’ più grandicello e con la beffa di faticare decisamente di più per entrare nel mondo del lavoro. Qualche anno fa, Salvatore Settis lanciò una proposta di riforma di università dalle pagine di Repubblica, appello caduto nel vuoto, intenti com’eravamo a blaterare su edizioni di testi scolastici e grembiulini. La proposta ricordava proprio il modello francese di un’università molto più simile ad un liceo, dove lo studente è monitorato nella sua attività ed evita così di stare parcheggiato 10 anni nell’ovattato ambiente d’ateneo. L’idea di Settis prevedeva che qualora Paolo, iscritto al primo anno, non avesse raggiunto un determinato profitto durante l’anno accademico, avrebbe dovuto ripetere l’anno. Se l’anno successivo Paolo avesse ripetuto la cattiva performance, avrebbe perso il diritto a riscriversi in quello stesso ateneo. Sistema severo ma presumibilmente efficace. Resterebbe da vedere se agli atenei italiani, divenuti delle macchine mangia soldi, sarebbero disposti a rinunciare a lucrare sui fuori corso col sistema dell’aumento delle tasse di iscrizione che sono già le più alte d’Europa dopo quelle di Regno Unito e Paesi Bassi. Con relativa soddisfazione di Jean François che paga in media 200 euro all’anno e il sempre più disgraziato Paolo che ne sborsa, mediamente, 1100. Quel lieve sorriso, così fortemente fiero, quelle rughe e quegli occhi chini, pronti a contemplare il futuro e a disegnare rotte che nessuno, negli anni, avrebbe poi seguito. Quella voce gutturale, contemplativa, che riusciva sempre ad accentrare l’attenzione su quanto diceva. E sul livello politico di quanto veniva detto. Questo era, per me, Enrico Berlinguer. Un sincero passionale. Uno che amava lo scontro ma illuminato da prospettive chiare. Parlava di politica e ribadiva che un tempo, nel primo dopoguerra c’era in tutti la volontà di capire la realtà del paese e di interpretarla. E, soprattutto, ricordava il rispetto tra chi era avversario nella lotta quotidiana ma diveniva persona stimabile nelle pause e nella vita. Nella famosa intervista rilasciata a Eugenio Scalfari il 28 luglio del 1981 dei partiti politici diceva: «Sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero.» Li accusava di aver occupato lo Stato e alcuni grandi giornali. Poi, la domanda più difficile e più impegnativa: In cosa consisteva questa benedetta “diversità”? «Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. (…)e possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. » Arriviamo, dunque, al nodo della questione morale, quel manifesto lucido, chiaro e deciso di un Berlinguer visionario e vero leader politico: « La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». La questione morale è dunque qualcosa di molto più complesso di quanto ha scritto sulla Nuova Sardegna l’On.le Marco Tedde [il giustizialismo a due velocità del partito democratico, 18 marzo 2014] e qualcosa di essenzialmente diverso dal complesso di superiorità tracciato dal consigliere di Forza Italia. Io e Marco siamo garantisti da sempre e non è questo il punto. Non si può però paragonare il caso Barracciu (solo indagata, per ora) e quello dell’ex sindaco di Sassari Ganau (anch’esso indagato) e le scelte che sono state effettuate dai vertici del Partito democratico in “umorali”; la questione morale non è essere così inflessibili su chi è appena sfiorato da un avviso di garanzia. Il problema è piuttosto un altro ed è legato all’occupazione dello Stato, del Palazzo, delle Istituzioni ma non da uomini “indagati”, (sarebbe troppo facile e populistico indicare come cattivi tutti quelli raggiunti da un avviso di garanzia), ma da uomini che si considerano buoni per tutte le stagioni e continuano da anni, da decenni, a sedere negli scranni del potere. Utilizzare il discorso di Enrico Berlinguer come ha fatto Marco Tedde (che, detto per inciso, nutre della mia stima per il mandato come sindaco di Alghero) è come indicare il dito e non raccontare ciò che il segretario dell’allora partito comunista intendeva dire. Lo diceva nel 1981. Poi, mani pulite e il 1994 con la discesa in campo a conquistare tutto “senza fare prigionieri” (Previti docet) hanno distrutto questo paese e la questione morale è stata brillantemente dimenticata e sepolta da tutti. Con buona pace di Berlinguer, delle sue rughe e dei suoi occhi chini. Un visionario ha sempre buone ragioni per dipingere un quadro. Chi osserva distrattamente non riesce sempre ad interpretarlo. Da piccoli, almeno ai miei tempi, i giochi erano circoscritti e limitati alle poche cose che in quel tempo si possedeva: pallone, palline, tappi di bottiglia, figurine, gessetti, plastilina, corde varie e molta fantasia. Un giorno eravamo pirati ed un altro cow boy o principesse o maghe o sacerdotesse. Si costruivano storie, si disegnavano scenari e trascorrevano le serate in attesa della fantomatica “tivù dei ragazzi” pronta a rimettere tutto in ordine e regalare altri attimi di fantasia. Ecco, ai miei tempi, c’eravamo inventati, per gioco, un mondo parallelo dove non esistevano i cattivi, dove tutti dovevano contribuire al bene comune e dove nessuno poteva litigare. Pena l’esclusione da quel mondo. L’avevamo chiamato il pianeta degli amici della terra perché ritenevamo che il suolo calpestato, gli alberi, i fiumi, le montagne, fossero di nostra proprietà e anche noi, come dicevano i vecchi Apaches, facevamo parte della terra. Figli della terra, quindi figli di Gaia. Avevamo dodici anni e molte lentiggini e brufoli di contorno ai nostri sogni. E avevamo diritto a disegnare quello strano mondo. Leggendo la notizia, davvero singolare, dell’imprenditore a cui hanno sequestrato, a Sassari, l’auto con targa contraffatta, come il tagliando dell’assicurazione e il passaporto, tutti intestati al fantomatico Regno sovrano di Gaia ho pensato, per un attimo, fosse uno dei miei vecchi amici che aveva realizzato il sogno: quello di regalare alla fantasia i colori della realtà. Ho anche pensato ad uno scherzo di buontemponi: la targa era davvero apprezzabile per la sua fattura. Invece, a quanto pare, gli appartenenti al Regno esistono davvero e non sono tenuti a rispettare le leggi dello Stato italiano, in quanto essi sono sovrani di loro stessi. Per sancire questo distacco, a quanto pare, compilano un documento da inviare al Presidente della Repubblica (che non riconoscono). In questo documento ci sono delle dichiarazioni davvero incomprensibili e legate a crediti che ognuno di noi, all’atto della nascita dovrebbe ottenere dallo Stato. Ecco perché, secondo i sudditi di Gaia niente è dovuto allo Stato Italia. Se non è goliardia non è, perlomeno nelle spiegazioni, alta finanza o analisi sociologica. Dunque è una scelta di persone capaci di intendere e di volere che si autoproclamano sudditi di un regno per il quale tutto è bellissimo, tutto è semplice e dove tutto funziona perfettamente. Mi verrebbe da chiedere ai felici appartenenti al regno di Gaia come sono gli ospedali dalle loro parti, come si vota, ci saranno le primarie, oppure tutto è lasciato all’autodeterminazione dei popoli? E la benzina quanto cosa? Pagheranno le accise nel regno di Gaia? E che lingua si parla in questo Regno, apparentemente senza confini? Quale scuola, quale università, quale arte si dipana nel loro mondo? Perché, in fondo, siamo tutti minimalisti e pragmatici. Non grandi portatori di filosofia e neppure profondi conoscitori di economia, politica o fisica e chimica. No, per fare un mondo, per creare l’algoritmo di uno Stato basta un passaporto, una targa e un’assicurazione che non esiste. Come il famoso “non compleanno” di Alice nel paese delle meraviglie. Una visione onirica della vita. E se il nostro suddito di Gaia avesse investito un pedone sulle strisce pedonali come si risolveva la questione? Non avrebbe riconosciuto le strisce italiane? Se non si pagano le tasse nessuno contribuirà ai servizi perché, molto probabilmente, quei servizi sono garantiti da altri: come per esempio il comune di Sassari. Dove il suddito di Gaia manda suo figlio a scuola, ha il medico di fiducia, getta il sacchetto della spazzatura nel cassonetto della sua via, utilizza gli ospedali e gli asili nido, l’asfalto dove la sua auto cammina, le rotonde, i semafori, i musei senza voler contribuire minimamente allo Stato che non riconosce. Il buon suddito di Gaia non è, come sembra, un buontempone, un personaggio in cerca d’autore. E’ una piccola sanguisuga che, anziché rispettare le regole minime della comunità in cui vive, tenta di inventarsi mondi paralleli e virtuali. Una volta, da giovani, giocavamo per ore, fino a stancarci. Ma avevamo capito le regole e il senso del gioco. E che cosa fosse la realtà. Come molti ormai sanno, il punteruolo rosso non è un attrezzo da lavoro dipinto, ma un insetto, un coleottero. Il rhynchophorus ferrugineus è un animale micidiale. Attacca le palme e le distrugge completamente. Le larve, con il loro rostro, scavano il legno interno interrompendo le funzioni vitali. Nonostante la ricerca scientifica in tutte le maniere stia cercando di combatterlo, esso appare invincibile. Eccetto agli Iatmul della Papua Nuova Guinea, come vedremo, che utilizzano il più tradizionale dei metodi. Quando il punteruolo parte non fa prigionieri. Distrugge tutte le palme senza lasciarne viva una nel raggio di chilometri, a causa di una capacità di propagazione e di proliferazione mostruosa, in grado di far viaggiare per chilometri milioni di esemplari in breve tempo. Cagliari, “città delle palme”, ormai è devastata, ma la bestia sta risalendo l’isola e in breve tempo raggiungerà anche il nord. Il danno economico è enorme, a causa del valore delle palme che ornamenta strade e giardini pubblici e privati. Al momento nessuna specie di palma pare indenne da questa sciagura, eccetto, forse, la palma nana, la specie endemica della Sardegna, ossia l’unica che si trova allo stato naturale, spontaneo. Siccome la natura non fa nulla per caso, mi sono domandato da cosa derivi questa invincibilità, questa spietatezza nella propagazione. Mi sono domandato quale meccanismo evolutivo può consentire ad una specie di distruggere completamente la fonte del proprio nutrimento. E’ come se i leoni uccidessero tutte le gazzelle e gli gnu: morirebbero di fame. Eppure il punteruolo si comporta così. Una cosa contro natura, spiegabile, però, con l’artificiosità del nostro habitat. Infatti, per poter capire, dobbiamo confrontare l’habitat originario, naturale, del punteruolo, con quello nostro. Ho riflettuto a lungo e ho formulato questa ipotesi. Il punteruolo si evolve come nemico naturale della palma da cocco, la quale ha una particolare forma di propagazione, legata agli arcipelaghi e alle isolette del Pacifico. Infatti le noci di cocco vengono trasportate dalle onde da una isoletta all’altra, resistendo tra i flutti per diversi mesi. Colonizzano perciò le isolette con popolamenti che, partendo dalla spiaggia, si insinuano all’interno. Il punteruolo è stato costretto ad adeguarsi all’habitat della palma da cocco, sviluppando così anch’esso una grande capacità di proliferazione per potersi spostare da un’isola ad un'altra. Ma in quell’habitat frammentato e diviso la capacità rigeneratrice della natura consente un equilibrio; le isolette, infatti, in breve tempo, rigenerano il proprio popolamento di palme una volta che il punteruolo è stato costretto ad emigrare per assenza di cibo. I primi squilibri si sono avuti con la coltivazione della palma da cocco e delle altre palme industriali. Da lì il punteruolo, non trovando più ostacoli naturali alla propria propagazione, ha iniziato la sua diffusione nel mondo, causata, principalmente, dalla negligenza dell’uomo. Infatti è stato l’uomo a trasportare inconsapevolmente esemplari di palma infetti in giro per il mondo. Dove non arriva la natura, ci pensa l’uomo. Allo stesso modo, nonostante ci siano sanzioni amministrative accompagnate da finanziamenti a pioggia per la profilassi della fitopatologia, pare che siano in pochi ad applicarla. La legge prevede che al primo segno di patologia la palma debba essere distrutta per impedire la diffusione dell’animale. Ma sembra che, una volta la malattia abbia infestato le proprie palme, pazienza, ci si disinteressi di quello che possano fare dopo. Il punteruolo rosso, dunque, è una specie di super insetto che si è evoluto in condizioni ecologiche che lo hanno portato, per la propria sopravvivenza, a sviluppare queste caratteristiche che, per le palme che arredano le nostre città e i nostri giardini, sono mortali. Ma, natura a parte, la negligenza degli uomini, ancora una volta, è risultata determinante. Pare che al momento ci sia solo un sistema per combattere questo animale, e ce lo insegna una popolazione della Papua Nuova Guinea, gli Iatmul. La competizione alimentare. Gli Iatmul, come ormai altre popolazioni del pianeta, si nutrono abbondantemente delle larve dell’insetto, considerate una prelibatezza. Se i nostri vermi del formaggio sanno di formaggio, vi lascio immaginare che sapore possano avere le larve di insetti che si nutrono di palma. Indovinato, di cocco. Ricchissimi di proteine, ferro e zinco, peraltro. Forse, un giorno, quando l’abbondanza di cibo che contraddistingue il nostro opulento, sprecone, lagnoso mondo occidentale verrà meno, si riuscirà a salvare qualche palma. Una amica mi chiede di verificare questa notizia: se è vero che lo Stato dà agli immigrati 40 euro al giorno. Mi linka l’articolo di un giornale locale online del Nord Italia. “Più soldi agli immigrati sani che agli invalidi”. E’ il titolo dell’articolo. Un accozzaglia miserabile di ragionamenti illogici, falsi e tendenziosi. Tutto il giornale è infarcito di articoli di cronaca ove gli immigrati sono protagonisti negativi. Forse è un giornale dell’area leghista, forse è solo un giornale volutamente razzista. Spazzatura.
Il razzismo tira, meglio se è spazzatura. Ho riflettuto sull’enorme successo che hanno le patacche contro gli immigrati su internet. Il web usato come una immensa discarica. Spot che dipingono gli immigrati come nababbi mantenuti, strapagati dallo Stato. Idiozie belle e buone. Bufale clamorose che vengono bevute ingenuamente e condivise compulsivamente. La disgraziata, irragionevole, criminale legge Bossi-Fini, per questi qua, non è mai esistita. L’immigrato nababbo è certamente l’argomento patacca più condiviso su internet, che dimostra come vi sia una pulsione, inconsapevole, che spesso la cultura non riesce a controllare, di odio e paura nei confronti degli immigrati. Una paura che viene poi, furbescamente, strumentalizzata politicamente. Gestire l’immigrazione è una cosa seria, un enorme problema con implicazioni umane, sociali, economiche, logistiche. Eppure viene trattata così, con pura cialtroneria e demagogia, anche dalla politica. Anche da quella politica che dovrebbe essere “nuova”. “Vorrei rispondere alla persona che mi ha mandato questo link”, mi fa questa amica. Che vuoi rispondere, gli dico io, se uno prende per oro colato un sito manifestamente razzista, non ci puoi far nulla. Lascia perdere. Non si può arginare tutto questo mare di spazzatura. Era la mia prima volta e la felicità era tanta, sbarcato dall'aereo nel primo pomeriggio, aspettavo curioso di vedere se, almeno al tramonto, il Mar Rosso fosse veramente rosso. Stravaccato a prua del catamarano, godevo di quella piacevole brezza marina dopo un pomeriggio davvero infuocato passato alla ricerca del natante che avrebbe dovuto accogliermi e che non mi aveva aspettato solo perché, all'aeroporto, chi era venuto a prendermi aveva tenuto in mano ma al contrario il foglio con su scritto il mio nome, ed io, euforico per quel viaggio, l'avevo forse scambiato per una scritta in arabo. Ma tutto si risolse, ci eravamo trovati infine. Mancava poco all'ora x, quando il rumore dei motori riprese a cantare, “lo vedrai domani il tramonto, ora abbiamo un'altra immersione da fare, il tuo battesimo con gli squali” mi gridò Andrea dal ponte di comando, ed io corsi ad aiutare Enza nelle manovre a poppa, ritirare le cime e assicurare la passerella, partenza. In me un misto di euforia e fifa combattevano ad armi pari, gli squali, sarà mica pericoloso? In mezzora raggiungemmo il punto di ancoraggio ed in pochi minuti eravamo già sul gommone pronti ed attrezzati per l'immersione, intorno uno spettacolo di reef dai mille colori che, una volta immersi, diventavano forme e presenze fantastiche. Miriadi di pesci di vari colori e specie, di spugne e coralli anche pericolosi, ma erano gli squali ad occupare i miei pensieri. Un fondale di venti metri nel punto più alto, poca roba, quindi sufficientemente illuminato senza l'ausilio di torce, ma nel frattempo imbruniva la sera. Mi posizionai vicino ad una grossa pietra che pareva un grosso cerebro, facendo attenzione a non toccare nulla perché ero privo di guanti protettivi, poi lo spettacolo. Dapprima due squaletti di un metro e mezzo di lunghezza, appaiati, ci vennero incontro ondeggianti col muso all'ingiù insieme ad uno strano pesce San Pietro che corse subito in tana. Sembravano incuriositi da quelle strane figure tutte nere che sbuffavano bolle d'aria, poi, di colpo, li vedemmo accelerare ed allontanarsi in fretta da noi. Un branco possente di grossi barracuda oscurò la scena, fecero un largo giro sopra le nostre teste per poi allontanarsi anche loro, un enorme pesce Napoleone ci osservava perplesso, ed ecco arrivare lui, un esemplare di smeriglio di tutto rispetto, almeno quattro metri di imponente architettura marina, a seguire altri, non molto più piccoli, alla fine erano otto in tutto. Nei retini tenevamo dei pezzi di pesce e dei totani, loro ne sentivano l'odore, disposti in un circolo che andava via via restringendosi ci si avvicinavano sempre più, e sempre più mi batteva il cuore. Munito di guanto di ferro, Andrea cominciò ad offrire loro qualche assaggino, graditissimi. Piano piano cominciavano a prendere confidenza, io molto meno. Poi mi decisi, estrassi dal mio retino parte della pelle di una cernia che era stata la cena del giorno prima in barca e la feci sventolare, volevo mollarla ed allontanarmi, ma pensai che meno mi sarei mosso, meno rischi avrei corso e, senza nemmeno rendermene conto, restai lì, fermo con quel chilozzo di pelle in mano. Lo squalo più grosso distava da me una decina di metri, mi guardava, poi cominciò ad avvicinarsi, ed io a sbiancare, cercavo di evitare di guardarlo negli occhi, ma era più forte di me, non ci riuscivo. Mentre si avvicinava la mia paura scemava, forse soppiantata da pura follia pensavo. Tre metri, due metri, un metro. Più si avvicinava e più rallentava, come a volermi e volersi rassicurare, il mio braccio fermo, alzato con quella bandiera scura di cernia in mano, ora me la stacca, ora mi trancia un braccio, ora mi divora, ma restavo fermo. Sino a che non l'ebbi faccia a faccia e, con una delicatezza indescrivibile, senza spalancare troppo le fauci ma abbastanza da farmi vedere ben bene le due file di acuminati denti che incoronavano quella enorme bocca, addentò dolcemente quel boccone senza strapparmelo di mano, senza sfiorarla. Lasciai la presa e riuscii a carezzargli il dorso, a toccare quella pinna dorsale così tremendamente bella, mi lasciò fare, ingurgitò il boccone in pochi attimi, poi si rifece avanti. Ed allora un totano, un altro pezzo di cernia e poi altri ancora, ad ogni boccone una carezza per lui e qualche quintale di brividi per me, fra l'emozione che cresceva e la paura che piano piano spariva. Era quasi buio, quando accendemmo le torce e cominciammo la risalita, a parete, sotto gli occhi del branco che restava sul fondo a perlustrare qualche avanzo dimenticato, per poi sparire nell'oscurità. Quel giorno avevo imparato quanto può essere bella “la bestia”, quando non ha le nostre sembianze. E’ notizia di qualche giorno fa che il Corpo Forestale dello Stato ha sequestrato alcuni animali di un circo in tournè in Sardegna. Il maltrattamento agli animali oggi è un reato piuttosto serio, punito dal codice penale con pene abbastanza severe. Però è un reato difficile da determinare. Applicato alla lettera metterebbe in discussione tutto il rapporto tra uomini e animali, allevamenti, animali domestici, cani da caccia, animali da lavoro. Però gli animali da circo sono costretti a vivere situazioni che, oggi, possono essere ormai considerate anacronistiche. Però la fortuna storica del circo si basa su quella particolare attrazione che gli uomini hanno degli animali umanizzati. L’imitazione del comportamento umano da parte degli animali attrae gli uomini, che lo preferiscono alla visione naturale. Basta vedere come appena venga postata la foto di un comportamento umanoide di un animale, ad esempio un abbraccio, si riempia di likes e di commenti del tipo “lo dico sempre che gli animali sono meglio degli uomini”. Fateci caso. Si elogiano gli animali nel momento in cui l’animale imita l’uomo. Questa attrattiva per gli animali umanizzati è la stessa che ha fatto la fortuna dei fumetti di Disney e di tutti gli altri cartoons e pupazzi vari. Se l’animale fa l’umano, è buono. In realtà, i comportamenti umanoidi degli animali, sono il frutto di uno stravolgimento della loro natura. Si tratta di animali “imprintati”, cresciuti in cattività. Noi li scambiamo per comportamenti belli, con la nostra morale antropocentrica, ma in realtà dietro si cela una storia di abbandono e allontanamento dal proprio habitat naturale. La retorica dell’animale buono migliore degli uomini, sapendolo, perde tutto il suo fascino. Io non so se gli animali sono meglio degli umani, certamente non sono così contradditori, contorti, e ipocriti. Perché al centro di questa attrazione per gli animali umanoidi ci sta questo antropocentrismo con tutto il suo peso, che riempie, ancora oggi, i circhi con leoni e tigri seduti su una seggiola. Però è una visione del rapporto uomo e animale sempre più anacronistica, sempre meno attrattiva e suggestiva. Sarebbe ora di ristabilire delle regole di gestione degli animali in cattività che evitino certe aberrazioni. I bambini si divertono con i clown e gli acrobati. E anche noi impariamo a godere degli animali veri che si comportano da animali, e non da pupazzi del Muppets Show o come fumetti di Topolino. Nella mia infanzia e sino quasi alla maggiore età, non mi ero mai accorto, perché non ne vedevo davvero nessuna, di tutte queste differenze che distinguono il genere femminile da quello maschile in questa nostra "civile società". Quello che vedevo e vivevo era una forte autorità femminile sia in famiglia che a scuola, dove mamme, sorelle e maestre erano capaci di mettere spesso anche in soggezione l'altro genere a prescindere dall'età. Tipico di una società matriarcale arcaica, figlia di Dee Madri, di Janas e Brujias semplicemente partorita da una cultura millenaria che ha avuto modo di valutare e metabolizzare in modo del tutto naturale la questione dei "ruoli fra generi". Osservatissimi codici dove donne, bambini e anziani erano salvaguardati e difesi ma dove ognuno aveva i suoi compiti, il suo ruolo e la sua dignità, valori integralmente complementari fra i generi. Tutte cose delle quali dovremmo andare fieri noi sardi, oggi più di ieri, invece di continuare ad adattarci come lobotomizzati ad una modernità che è risultata alla fine solo una truffa, un decadimento sconsolante di quei valori e di quei ruoli, di quei codici che non sono stati soppiantati da qualcosa di meglio e di più attuale, ma da una presunta ed irraggiungibile uguaglianza fra i generi imposta per legge e non per cultura. Uguaglianza perché? Per cosa? Nei diritti universali, e ci sta bene, ma per il resto? É davvero giusto, naturale, che una donna svolga gli stessi compiti e le stesse mansioni di un uomo, o viceversa? La mia risposta è un "ni" e non potrebbe essere altrimenti, è un ni perché pur essendo d'accordo, senza nessuna remora, alla libertà di una donna (come di un uomo) di decidere se fare il muratore o l'imbianchino, il direttore o il presidente e alla possibilità/opportunità per lei di scegliere e di raggiungerle, quello che vedo nella realtà non sono certo file infinite al collocamento di donne che cercano assunzione per buona parte di questi mestieri ma solo la ricerca spasmodica di raggiungere quelle posizioni apicali (spesso discutibilissime) nelle quali, solitamente, i "maschi" fanno incetta. Vedo poi troppe donne che raggiungono quelle posizioni, dimostrarsi infine per niente differenti ne' migliori dei loro colleghi se non peggio, potrei fare tanti nomi ma non voglio farne una questione "personale", ne citerò solo alcune, tutte "onorevoli": E. Fornero, A. Mussolini, M.S. Gelmini, M.G. Lanzillotta, S. Camusso, D. Santanchè, la De Girolamo e potrei continuare per intere pagine con esempi simili, esempi che inficiano totalmente la teoria sempre sbandierata che vorrebbe la donna superiore all'uomo in un disegno femminista che, in sostanza, non è che lo specchio inverso del machismo. Io pretendo Giustizia, non l'uguaglianza che genera le Barbara D'Urso e le Flavia Vento, e la pretendo per tutti a prescindere dai generi, l'uguaglianza totale non la voglio nemmeno fra uomini, perché siamo tutti diversi uno dall'altro, per nostra fortuna. Sono queste differenze che bisogna imparare a gestire con giustizia, valutando obiettivamenti e su parametri condivisi la propensione, capacità, vocazione e meriti di tutte/i, caso per caso e non generalizzando la questione in quote cromatiche. Non "in quanto donna" ma "in quanto adatta", nel caso, a quel compito, mestiere o mansione. E mi dispiace che sia persa, nel tempo, quella sana abitudine di far corrispondere a quel "gradino più basso" dove la donna si sente per molti versi collocata, dei gradini più alti, dei piedistalli sui quali all'uomo non è consentibile salire. Oggi esistono "i casalinghi" come le casalinghe, esistono le sindachesse come i sindaci, le ministre come i ministri, sono poche? Ma non è solo l'uomo, a non votarle, anzi. Non è solo colpa sua, se il gentil sesso fa fatica ad emergere, a coalizzarsi e valorizzarsi, ma le colpe sono evidentemente ed equamente distribuite, gli uomini hanno fatto cartello? Anche le donne, ma gli effetti sono e restano differenti e per colpa di entrambi, perché si è ricercato e si ricerca ancora di rimarcare le differenze invece di appianarle rendendole utili per tutte/i, perché spesso è proprio nell'educazione che le mamme danno ai propri figli maschi, che si annidano i pericoli di queste divisioni, di queste differenze viste più come ostacoli che come opportunità. Discriminazioni, frustrazioni e violenze ne subiamo tutti a prescindere dall'età e dal sesso, e non è vero che un uomo soffra per certe ingiustizie meno di una donna, anche quantitativamente, questo è quello che fa comodo far credere a molti, religioni e fanatismi per primi, ma non è così. Lavoriamo piuttosto perché quella complementarietà, quell'equilibrio non necessariamente uguale fra generi e propensioni torni ad essere un fatto acquisito e naturale e non l'ennesima imposizione calata dall'alto, maldigerita da entrambi, in fondo. In questo mi troverete sempre al vostro fianco, nella ricerca di fare scendere l'uomo da un gradino che non gli spetta invece che cercare di farci salire anche l'altro genere, perchè se una cosa è sbagliata non può esserlo per una sola parte, una parte della stessa identica medaglia, l'essere umani. Ed ora, massacratemi pure. La mattina, prima di uscire di casa ascolto un po’ di musica per augurarmi una buona giornata. Uso il computer che oramai fa da televisore, sala cinematografica personale e stereo. Al solito, prima di “ascoltare” il video musicale che scelgo, devo sorbirmi dei lenti, snervanti secondi di pubblicità. Uno spot che mi perseguita in queste settimane sponsorizza un sito per l’ordinazione di cibi da ristoranti e fast food convenzionati. Il messaggio di persuasione, più o meno questo: “ Perché perdi tempo a cucinare, tagliuzzare, sporcare la cucina quando puoi solamente mangiare?”. L’esser d’accordo o no dipende dal significato che si dà alla nozione di tempo. Per gli autori della pubblicità il tempo deve coincidere con la frenetica velocità che ti fa recuperare del tempo da riempire con una seduta di shopping in un centro commerciale dove puoi, all’occorrenza, anche mangiare; o magari tempo da spendere nel chiuso di una palestra dove ti impegni a bruciare quello che nel centro commerciale ti sei appena ingurgitato. Quello spot mi ha fatto un po’ rimanere male. Io, nel cucinare, ci “perdo” una quota di tempo non indifferente. Quando iniziai a cimentarmi con la cucina, l’esito era sconfortante. Troppa cipolla. Troppo sale. Troppo poco sale. Cottura prolungata. Pietanze semi crude. Questi esperimenti avvenivano contemporaneamente all’osservazione di come i francesi riuscissero a rendere disgustoso un piatto di pasta con una vera e propria pratica di tortura. Immersa in acqua fredda e non salata, lasciata fondere trenta minuti a fuoco vivo durante i quali aggiungevano un’inspiegabile, per la sua inutilità, goccia d’ olio. L’assassinio terminava col condimento: letale tonno al naturale più mais in scatola. Capii che cucinare equivaleva a prendersi cura di se stessi e degli altri. Nelle settimane, iniziai a recuperare i ricordi di quello che vedevo fare a casa mia e zittii il mio vicino di stanza algerino che mi chiedeva spiegazioni sulla punta di zucchero nel sugo. Imparando, lo scopo era riprodurre il sapore dei cibi preparati da mia madre. Per sentirmi a casa anche quando non c’ero. Questa sfida riesce sempre più spesso, anche se lei, mia madre, non ci crede, e continua a pensare che io sopravviva grazie a panini e surgelati. In Inghilterra, giornata di Pasqua soleggiata e libera, rimasi a casa e occupai l’intera mattinata a preparare un ragù. Ci feci fare colazione alla mia coinquilina nigeriana, svegliatasi come suo solito, a pomeriggio inoltrato. Era contenta. Il giorno dopo sorpresi l’altra coinquilina francese con le mani immerse nel macinato di carne. “ Ho visto quello che hai preparato ieri e sembrava davvero buono. Lo voglio fare anche io”, mi disse col suo bello e buffo sorriso. Ripensandoci,non mi sembra di aver perso del tempo. Detto questo, stasera alzerò la cornetta del telefono e ordinerò una pizza. Z I silenzi nel pentagramma della vita E’ difficile raccontare le tragedie, provare a osservare gli occhi lacerati di chi, in un attimo, ha commesso un omicidio. Con le proprie mani. E’ difficile riuscire a sovrapporre le parole al sangue e allo sgomento di chi ha colpito e poi colpito e poi ha urlato e ha evirato le anime di tre bambine. Con le proprie mani. Mani di una madre. Mani che sino al giorno prima avevano pettinato i capelli e preparato la colazione e lavato i piatti e rimboccato le coperte e avevano accompagnato le proprie figlie a scuola, tenendole per mano. Edlira Dobrushi, la madre di trentasette anni di origine albanese che ai carabinieri di Lecco ha confessato di aver ucciso tre figlie, tre bambine, aveva mani sporche di sangue. Sangue del suo ventre. Sangue di Simona, Casey e della piccola Sindey. E’ difficile mettersi alla finestra di questa immane tragedia, di questo sacrificio assurdo, inconcepibile. Sono i rumori del silenzio che, a volte, non sentiamo. Perché per noi i nostri vicini sono tutti “normali”. A meno che non urlino o litigano o i figli sono maleducati o sono divorziati. Quando le parole non ci sono, quando non sentiamo il rumore, non riusciamo mai a soppesare il peso degli sguardi, non riusciamo a codificare quello che gli occhi raccontano, quale vita sbiadita si nasconde dietro le loro esistenze. Ed è la fragilità, la paura di non farcela, la vergogna, l’essere additati come diversi, che fanno stringere quelle mani sino a farle diventare pugni difficili da sciogliere. E’ la nostra velocità nel continuare, nel non doversi mai fermare e riflettere che ci porta poi a porci le domande e chiederci il perché. E non sapere le risposte. Tutto l’orrore dietro quelle mani che hanno lacerato, inseguito e ucciso. Mani sottili, adatte a raccogliere piccoli oggetti da accarezzare. Mani rapprese e stanche, accovacciate nel ventre malato, mani una volta calde che sapevano accarezzare e circoscrivere le sensazioni. Quelle mani hanno agito, hanno colpito e ucciso e poi si sono guardate. Mani atrofizzate dalla realtà che le ha divorate. Adesso è scaduto il tempo. Mani ferme e nervose che non riescono a spiegare e occhi senza luce e senza orizzonte a stagliare il baratro che si ritrovano davanti. Ho sentito negli anni i racconti di molti uomini che, con le loro mani, avevano ucciso. Per rabbia, per vendetta, per la ricerca di una libertà, per una sciocchezza. Mani sempre lente a stringere altre mani, sempre molto poco disponibili a spiegare. Ho ascoltato. Ho provato a capire i gesti, gli attimi che portano quella mano ad agire, l’impulso razionale che muove quelle dita, quei muscoli. Ma non ci sono riuscito. Perché non sono le mani a dettare i sospiri della vita. Dobbiamo ripartire dalle storie e provare a miscelarle con gli eventi. Quante parole non dette nella vita di Edlira, quante cose che qualcuno adesso racconterà nelle tante “vite in diretta” di questo mondo acquario. Tutti a guardare quelle mani e a piangere per il gesto. Ci sarà il criminologo, lo psicologo, il vicino di casa, l’amica del quartiere. Parole che servono, in fondo, per riempire il vuoto delle nostre coscienze. Edlira, da oggi, sarà sola a contemplare le sue mani e a ripetere per milioni di volte tutti i gesti. E’ difficile raccontare le tragedie soprattutto quando queste superano – e di gran lunga – le trame dei romanzi. Perché anche gli scrittori, come tutti, sono abituati a far muovere i loro personaggi in un mondo semplice, dove tutti parlano e discutono e comprendono. Nei romanzi non ci sono mai spazi vuoti. Chi scrive non se lo può permettere. Eppure, davanti a questa storia che ci centrifuga l’anima, dovremmo lasciare una pagina bianca a rimarcare la sospensione degli attimi. Sono morte tre bambine. Ed è morta anche Edlira, scaraventata in un nuovo inferno dove non riuscirà a rianimare i propri desideri e le paure e il terrore che l’ha accompagnata ad utilizzare quelle mani per stringere una lama. Fredda e terrificante. Quelle mani, nella segretezza degli eventi, hanno colpito tutti, perché nessuno, ormai, riesce più a leggere i silenzi nel pentagramma della vita. Fai clic qui per effettuare modifiche.“Ma cosa significa questo cuore blu? Che senso ha?”.“Anche il cuore blu ha un senso”.
“E sarebbe?” “Hai presente il sangue quando ritorna al cuore dopo aver fatto il giro di tutti i vasi sanguigni? Ebbene, è sangue impoverito del suo ossigeno. E sangue sfruttato, stanco, senza speranza, se non quella di ricominciare d’accapo, una boccata d’ossigeno e via. Vedi, quel sangue è blu. Il sangue stanco è blu, e anche quella parte del cuore.” “Non capisco” “E’ come la ripetizione di una lunga, estenuante attesa. Come se si volesse fermare il tempo su qualcosa di…” “Qualcosa di?” “Ti racconto questa storia. Quando ero ragazzino, ero tutto preso da questa morettina. Il mio primo amore, capisci? Il suo idillio mi accompagnò per tutta la fanciullezza e l’adolescenza, dagli undici ai sedici anni. Ero timido, riservato, e non avevo il coraggio di dichiararmi. Forse orgoglio, paura di un rifiuto, chissà. Ero tutto dentro la nuvola dell’idealismo romantico. Ricordo che un giorno mio fratello, con la cattiveria dei ragazzini, per prenderla in giro, la canzonò dicendole che io ero cotto di lei. Ricordo che mi vergognai come un ladro e restai tre giorni senza uscire di casa. Dato che praticavamo lo stesso sport nella stessa società, capitava di andare in trasferta tutti insieme. Erano molto belle quelle trasferte, dove all’eccitazione della gara si univa l’amicizia che univa quel gruppo di ragazzi sportivi, il gusto della gita, lo sbocciare dei primi amori tra noi. Ricordo di un lungo viaggio in treno, in continente. Avevamo 14 anni, forse 15. Si chiacchierava, si scherzava. Lei mi raccontò questo sogno. Mi disse che qualcuno ci aveva spinti l’uno contro l’altro, e noi ci eravamo trovati abbracciati. Nel frattempo si era sdraiata in un largo portabagagli, che bisognava centellinare l’energie per la gara e non arrivare distrutti, che con i continentali bisognava fare bella figura. Io ero sdraiato con lei, affianco. Il treno, con il suo tu-tum, sballottandoci, ci consentiva di sfiorare i nostri corpi, di tanto in tanto, ingannando quel pudore infantile. Ero un ragazzino pensieroso e spensierato nello stesso tempo, ma avevo già letto qualche libro, come “L’interpretazione dei sogni” di Freud e “Il linguaggio dimenticato” di Fromm. Nella mia mente di piccolo intellettuale imbranato, quella rivelazione onirica mi diede un coraggio mai avuto, tanto da sfiorarle la mano con la mia. E restai così, per un tempo eterno con la mano nella sua mano, fissando il soffitto, ascoltando il respiro e il suo corpo che mi sfiorava, fino a che la bocca, a mia insaputa, pronunciò le seguenti parole: “Sto così bene che vorrei che il tempo si fermasse”. “Anch’io”, fu la sua risposta.” “E poi?”. “E poi. E poi niente. Dopo un po’ di tempo la vidi insieme ad un bullo del paese, un tipo da cui era meglio stare lontani. Più grande di me. Si sa, le ragazze crescono più in fretta. Se mi avessero punto, in quel momento, il mio sangue sarebbe stato blu, ma di un blu scuro, nero, petrolio. Ci impiegai molto tempo per dimenticarla.” “Che tristezza. Finita?” “Si, anzi no. L’ho rincontrata dopo trent’anni. Si era sposata con una brava persona e aveva avuto tre figli. Quando la vidi era con i bambini. Mi accolse con grandi feste e mi presentò ai figli, questo è un carissimo amico di mamma, disse. Sottolineò con un accento forte e sincero la parola carissimo, ripetuta più volte, carissimo. Al momento di salutarci, la sorpresi che si asciugava un luccicone dagli occhi.” “Capito. Capito il senso del cuore blu.” “Capito?”. “Capito. … Se permetti preferisco quello rosso.” Viene da chiederselo, almeno dovrebbe venire da chiederselo, un po' a tutti noi, com'è che facciano persone di così dubbia levatura a raggiungere posizioni e ruoli così "alti", autorevoli. Le risposte sono tante e tutte gravitano intorno alle nostre ataviche e ben radicate, quanto venefiche, abitudini. Che sono poi la sostanza e la forma del "costume" di un paese, dei suoi abitanti. Abitudini che ci siamo abituati a prendere senza pensarci su tanto, abitudini che abbiamo assorbito quando le stalle erano piene e le vacche erano grasse, quando nessuno si lamentava del continuo trasgredire alle regole e alla civile morale, perché in molti ne traevano tornaconto. Nessuno si lamentava per le "pensioni baby" o "gold", tutti supini e zitti, quando in fila ti passava davanti il raccomandato di turno, invece di inveirgli contro si è corsi a cercare la "raccomandazione", a legare il proprio destino a quello di un improbabile politicante, improbabile proprio perché prometteva ed elargiva "raccomandazioni" anche se in forma inversamente proporzionale (più promesse = meno elargizioni). "Politicante" perchè, anche ai livelli più bassi, c'è più affarismo e commercio che politica, nei consessi istituzionali. Prova ne siano le continue incursioni delle magistrature in uffici e abitazioni di questi "improbabili". Prova ne sia lo stato del paese, del suo tessuto produttivo e culturale, dei suoi sistemi nell'insieme, sanità, istruzione, giustizia e conti pubblici. Ci siamo abituati - non uso il "ci hanno" perché ritengo chiunque possegga un cervello abbia di fatto anche la capacità di scindere- a troppe cose che sarebbe invece stato meglio evitare, ma la frittata è fatta. Il "neoliberismo" alla fine ha convinto tutti, con i suoi effetti speciali visivi, sonori e subliminali, siamo arrivati ad un punto in cui eravamo tutti convinti che si potesse essere tutti furbi, contemporaneamente, salvo poi rendersi conto ogni giorno di più di quanto siamo stati stolti, ingenui e, chi più chi meno, truffati un'altra volta ed in buona parte da noi stessi, perché complici. I risultati di cotante abitudini li vedi oggi sul viso delle persone, che ridono sempre meno, sempre meno spensierate. Li vedi nell'incapacità di gestire i nostri scarti e rifiuti ed in quella di capire cosa stia accadendo sul serio al mondo, lo vedi nello stato dei centri abitati e delle campagne, vittime illustri delle nostre abitudini, o meglio, di tutto quello che ci siamo abituati a sacrificare per "non vivere". Ed io, francamente, tutta questa "bellezza" in tutto questo, davvero non riesco a vedercela. Le parole e i concetti hanno un suono. Raccontano quello che le immagini non riescono a codificare. Eppure, a volte, diventa difficile riuscire a scardinare ciò che le parole hanno costruito. Perché la gente ormai si è appropriata di quel termine, di quel modo di dire e lo fa diventare “luogo comune” e, in alcuni casi, diventa “verità rivelata”. E’ il caso del decreto “svuotacarceri” locuzione di questi giorni che è stata “affibbiata” ad un decreto poco amato da Lega e Cinque stelle e poco sostenuto dagli altri partiti. Intanto, quel decreto, divenuto Legge (Legge n.10 del 2014) non svuota, nella maniera più assoluta, le carceri. Non è un indulto, un’amnistia, un regalo. E’ piuttosto qualcosa che parte da lontano e prova, seppure goffamente, ad “aggiustare” alcuni passaggi legislativi non proprio felici. E’ una legge “aperta” ad una nuova serie di soluzioni e prova a scrollarsi di dosso l’idea che tutto, in questo paese debba necessariamente “carcerizzato”, che tutti i reati devono passare obbligatoriamente per la fermata di un penitenziario. Prova a sveltire l’espulsione dei detenuti stranieri verso i loro paese di origine, prova a concedere, per un tempo di sei anni, una maggiorazione di liberazione anticipata a detenuti meritevoli del beneficio escludendo, tassativamente, detenuti di alta sicurezza, appartenente alla malavita organizzata, stupratori e pedofili. Per quelli non esiste nessuna possibilità di libertà. Quindi, il carcere, per chi ha commesso gravi reati non si svuota. Il decreto Legge 146/2013 prova invece, seppure con una certa timidezza, a dare la parola al detenuto con il diritto di reclamo giursdizionale, amplia la possibilità di ottenere l’affidamento in prova al servizio sociale a quattro anni, restituendo nuove opportunità a chi, per esempio, ha già un lavoro oppure è all’interno di un progetto di inclusione sociale. Scommette sull’abbattimento della recidiva. E’ un discorso difficile e contorto. Un percorso complesso molto simile a quello sulla formazione: occorre scommettere sul futuro. Chi non passa per il “penitenziario” ha meno possibilità di rientrare all’interno del circuito delinquenziale. Vi sono studi che lo dimostrano e vi sono paesi, in Europa, che ci scommettono da anni. In Inghilterra, per esempio, la “messa alla prova” è una misura alternativa tra le più usate e apprezzate. Chi commette un reato non grave non entra in carcere ma, con una sorta di patto bilaterale tra Stato e reo, prova a dimostrare che si può scommettere sulla sua voglia di riscatto. In Italia questa proposta di legge giace dall’ultima legislatura nella commissione Giustizia alla Camera e il tragitto culturale, purtroppo, sembra essere piuttosto tortuoso. E’ difficile scommettere sulle persone, ed è difficile farlo con chi ha molte curve nel suo tragitto di vita. Il decreto approvato introduce, inoltre, la possibilità di poter trascorrere presso la propria abitazione la condanna, utilizzando il famoso “braccialetto”, dispositivo per il quale il nostro paese paga un affitto alla telecom da molti anni. Questa espiazione della pena appare in linea con le direttive europee e restituisce dignità a persone che, magari, per la prima volta si trovano a dover affrontare il percorso disagevole del penitenziario. Manca in questo decreto il coraggio vero, innovativo, di provare ad attuare la “riparazione del danno”, la possibilità di mediazione penale, la scommessa di mettersi in gioco e di farlo con un percorso serio, riflessivo, anche con la vittima del reato. Le carceri, dunque, non si svuotano. Ma vanno osservate con occhiali diversi. Dentro gli istituti penitenziari ci sono persone in grado di voler riscattare la propria vita, in grado di poter riparare ai propri errori, in grado di dimostrarlo. Vi è uno sforzo da parte di tutti per vincere questa scommessa e questo decreto più che “svuotacarcere” può essere appellato come: “piccola opportunità” per i detenuti ma anche per l’intera società. Cara Francesca Barracciu Chissà cosa sta succedendo a Roma in queste ore, e chissà se quando leggerai questa lettera sarai ancora sottosegretario. Se ti scrivo, e mi sbilancio con idee, nome, cognome e foto profilo col cappello da Zorro, è perché sono assolutamente sicuro che io certe cose te le debba dire, e che debba farlo pubblicamente. Io credo che tu debba dimetterti prima che ti dimettano gli altri. È bene che tu lo faccia, mettendo da parte considerazioni egoistiche (lo dico col rispetto che si deve all’ambizione legittima che muove ognuno di noi, anche se c’è chi è più mobile e chi lo è meno). Sono tempi in cui milioni di laureati, professionisti, genitori, disoccupati, precari, impiegati a rischio licenziamento e così via, non capiscono in base a quali forze maggiori, a quali armonie segrete, una persona debba poter passare da un posto di potere ad un altro con la sola forza delle punte dei piedi. Tu hai puntato i piedi per difendere il tuo percorso, forse anche per proteggere la tua persona, in qualche modo, dalle conseguenze delle indagini sui rimborsi. Umanamente lo capisco. Penso lo capiscano in tanti. Sul piano della civiltà di cui avremmo bisogno, però, la tua permanenza in quell’incarico è inaccettabile. Non è bene che qualcuno diventi sottosegretario o ministro o presidente di Regione “per forza”. Sarebbe ingiusto. Lo sono tante altre cose, verrebbe facile dire. Certo. Ma tu ora hai la possibilità di prendere una di queste cose –la tua vicenda- e orientarla verso un orizzonte diverso. Restando in quell’incarico non potrai fare per la Sardegna e per l’Italia niente di particolarmente salutare, atteso che quello che serve oggi a tutti noi, e ci servirà fino a quando saremo usciti da questa crisi totale, è una serie di gesti di rottura che possano indicare, letteralmente, che qualcosa di meglio è possibile. Ci vuole il coraggio di essere sorprendenti, e chi sta in alto può sorprendere e fare molto bene solo se compie atti “giusti”. Cosa sarà del tuo caso giudiziario lo sapremo solo tra qualche tempo. Spero che non ti accada nulla. Cosa c’è alla base di quelle indagini, invece, lo sai solo tu. Quello che invece sappiamo tutti noi, per ora, è che la politica, con il suo normale svolgersi quotidiano, ancora una volta è incappata nell’operato della magistratura. Non so se tu riesca a capire quanto, per dei cittadini, possa essere disperante e deprimente questo continuo inciampare dei propri rappresentanti. Credimi, lo è. Non pensare solo ai voti che sei stata capace di prendere in passato. Non hanno un valore eterno. Non significano che hai il diritto di gestire il potere a prescindere da tutto il resto. Ora quei voti non li prenderesti più, come non li prenderebbero più molti di coloro che sono stati in auge durante la tua stessa stagione. Il dato dell’astensionismo alle ultime regionali è qualcosa che si può contrastare, ripeto, solo con atti giusti e sorprendenti: l’unica cosa che possa convincere persone che ormai non si sorprendono più di nulla, a tornare a votare. Rinuncia a quell’incarico, dai un segnale che “stona” con le litanie cui siamo abituati. In molti rifletteranno sul tuo gesto e questo per la Sardegna sarà un bene, non so quanto grande, ma sarà un bene. Queste righe, se per qualche motivo tu decidessi di rimuoverle dalla tua pagina, o se per qualche motivo io non riuscissi a postarle, potrai trovarle anche sulla pagina FB di Sardegnablogger. È gestita da un gruppo di persone col pallino della scrittura, della Sardegna e della politica fatta per bene. Te lo dico perché credo tu possa trovare interessanti molte delle cose che su quella pagina vengono scritte, dai redattori e dai lettori. Come dice il titolo, questa è una lettera d’amore. Per i miei figli. Ti saluto cordialmente Luca Ronchi Sono appena rientrato da Roma. La mia Roma ha sempre diversi sentieri e diverse musiche che le girano intorno: da Piazza Navona a Primavalle, tra via Fani e via Caetani, dalla fermata del 46 barrato e quegli sprazzi di vita tra la Garbatella e i Fori Imperiali. Perché Roma è così: tua. Ma non proprio. E non sempre. E, in questi giorni, è avvolta da una strana bellezza: amante e nemica, solitaria e triste, pronta alle lacrime. Quelle del tassista che non si lamenta più del traffico, ma tra un semaforo e l’altro mi racconta di suo figlio e dell’impossibilità di trovargli un lavoro. Non tanto il posto fisso agognato da quel borghese piccolo piccolo di Alberto Sordi. Ma almeno un attimo di dignità. Quando lo saluto mi ringrazia della chiacchierata e mi dice una cosa apparentemente insignificante: “me auguro che vince ‘a granne bellezza”. Gli chiedo il perché e lui, con un sorriso lento e solitario come questa città, risponde : “armeno se parla de Roma, ormai qua i romani nun ce stanno più”. E, pensando al film di Sorrentino ho deciso di camminare nel silenzio di Via Margutta, ad imprimere i colori e i suoni di quella strada apparentemente fuori dal mondo. Non ci passa più nessuno. Solo qualche piccolo negozio, un bar e un ristorante. Nient’altro. I romani “nun ce stanno più”. A Piazza Vittorio i negozi sono tutti dei cinesi. A Trastevere, nei ristoranti, mi accolgono gli indiani, i rumeni, sorrisi aperti e disponibili. Ma non è Roma. Quella mia Roma, ridondante e forte, un po’ eccessiva e un po’ puttana. Ma vera. Quella Roma papalina, ansimante tra i rumori e i silenzi di una politica avvolta da matasse indescrivibile di parole. Passare a Botteghe Oscure o Piazza del Gesù e non vedere nessuno che si sofferma, nessuno che ricorda, nessuno che comprenda. La Roma dei palazzi. Quella grigia e materialista intrisa nell’incenso e nell’arte. Roma abbandonata e quasi dimenticata. Spolpata degli affetti, amante dimenticata. Ho percorso il Tevere osservando il muoversi dell’acqua. Non riesce ad andare “lento lento”. Ha un altro movimento. Che non mi appartiene. E scompare, tra i ricordi, l’isola Tiberina, il ghetto degli ebrei, i luoghi dolci e sommessi. I miei luoghi. Dove vedevo Ottiero Ottieri, Pasolini, dove sorridevo all’idea del picche nicche di Moravia, a Carlo Verdone, a Montesano, a Mastroianni, a Fellini. A quella strana e immensa bellezza di una città madre e mai matrigna. Alla quale tutto si perdona. Sono passato per via del Corso e ho approfittato per vedere la mostra di Modigliani e i suoi pittori, amici maledetti. I suoi quadri immensi e incommensurabili, quelle donne dal collo lungo e senza occhi. Come Roma. Che osserva e non ti guarda, ti abbraccia e non ti sente, ti ama e non ti ascolta. Una strana e stridente bellezza. La mia Roma. Tra Fontana di Trevi e pineta Sacchetti ad aspettare un autobus che non passa. A guardare gli occhi di questa città e vederci il mare. Questo, tra le calde lacrime perdute, è quello che dolcemente appare. Roma. La grande bellezza. Parto da lontano, esattamente dalle aspettative che in tanti coltivavano verso l'allora neoeletto Presidente Barack Obama, l'uomo di colore numero uno negli "states". Ma, da circa sessanta anni in qua, qualsiasi momento sarebbe quello giusto per cominciare ad intrecciare un ragionamento logico e storico su quanto è accaduto ed accade al mondo, ciclicamente e senza soluzione di continuità. Proseguo con l'uscita di scena (molto teatrale ma per niente reale) di Coso dalla scena politica; con i fans di Monti, poi di Letta ed oggi "renziani", con i "PapaBoys" di Wojtyla o di Francesco primo con l'intermezzo "Paparatzi", aspettative, repubbliche che cambiano e numeri a profusione, eppure nulla cambia. Anche qua in Sardegna si è "voltato pagina", ma lo si è fatto realmente? É presto, è vero, ma intanto abbiamo due governatori al pari di due papi. Sparite le Pubuse e i cantori del controcanto alla Statutaria, spariti i deterrenti sinistri e destri che parevano all'epoca quando esimi giuristi cattedrattici, quando economisti bocconiani in fuga, sono passate in questi cinque anni le peggiori vergogne legislative, le peggiori vergogne propagandiste e sono passate, ancora una volta, bipartisan. Mi chiedo a quando, i sardi saranno capaci di memorizzare i nomi di chi dissente, di chi vota contro certe decisioni e di cancellare -non solo dalla memoria- i nomi di chi le ha votate? Non siamo mai pronti, noi, ci tiriamo dietro da secoli tutti quelli che non fanno e non lasciano fare e permettiamo pure loro di rallentarci, di farci retrocedere ogni volta praticamente in tutti i sensi. "Lasciateli fare" è la parola d'ordine, ogni volta, "c'è da pagare il conto" quella successiva, puntuale. L'importante è che nel frattempo, "nell'intermezzo" direbbe la [tv], ci siano ancora il calcio e le paure, le tette e i tanga, l'appariscenza opulenta, da assorbire, ecco perchè quel "dove eravamo rimasti" diventa affermazione, non più domanda, siamo rimasti fermi a venti anni fa, non siamo progrediti di un micron, anzi. Vedere Lupi ancora ministro sfuggire con una faccia di bronzo vergognosamente ottusa, squallida, alla domanda sulla nomina di Gentile, allo stesso modo il "distrarsi" di Franceschini, anch'egli ministro oggi collega di governo del Lupi (o lo erano anche ieri?), dà bene l'idea di dove siamo rimasti, esattamente dove eravamo rimasti, nonostante i Bigs, i papi ed i governatori "du'gust is megl'che uàn" il prodotto non cambia, il tempo invece... Arrivo spesso un po’ in ritardo sulle cose. È che mi prendo del tempo per capirle, per non lasciare che la prima e veloce impressione sia causa di errori. Alle prime voci udite e alle prime righe lette sui fatti ucraini, mi sono fermata e ho preso una pausa. Quando la realtà rappresentata appare semplice da capire, c’è qualcosa che non va. La ex Jugoslavia e l’Iraq me lo hanno insegnato. Agli stringati resoconti dei media mainstream sulle proteste di Kiev, si sono aggiunti, in contemporanea, i commenti del popolo della rete. Non è facile esimersi dall’esprimere un’opinione quando si è sotto l’effetto emozionale di immagini forti e quando si ha uno smartphone a portata di mano. L’opinione che mi ha scosso è stata quella di Ahmed: “Anche in Egitto sono morte tante persone. Cinquemila in un solo giorno. Ma su di loro non avete detto nulla. Forse perché sono musulmani.” Beh, io ad Ahmed non riesco a non dare almeno un po’ di ragione. Volessimo usare dell’ironia, direi ad Ahmed che i musulmani da lui chiamati in causa - ma preferirei parlare di egiziani, oltre che di libici, di siriani, hanno un po’di responsabilità. Sono ancora probabilmente troppo ingenui e maldestri nell’uso dei media più moderni e dei social network. Pensiamo al video virale intitolato “ I am a Ukrainian”, circolato in questi giorni di sul web. È un video di buona qualità; a parlare è una ragazza dall’ aspetto molto gradevole, che usa toni concilianti; si capisce quello che dice perché parla inglese; il suo messaggio è un’invocazione alla libertà. Come le si potrebbe dar torto? Ahmed potrebbe rispondermi dicendo che anche in occasione delle proteste egiziane le donne si sono fatte sentire, come ha fatto Asma Mahfouz. Anche il suo video di protesta è reperibile su youtube. Però lo porterei a riconoscere che Il video di Asma è di qualità mediocre, l’immagine è traballante e poi … poi lei porta il velo, sarà sicuramente una “fondamentalista”. In più, parla una lingua che nessuno qui capisce. Tranquillizzerei Ahmed comunque, perché dietro gli slogan da lui letti, non c’è, probabilmente, alcuna comprensione dei fatti. Sfido gli autori di quei cori da stadio a citare qualcosa dell’Ucraina che esuli dalla Dinamo Kiev e Andriy Shevchenko. “Oggi sto col popolo ucraino”, hanno scritto. Ma non sanno quale di quale popolo parlano e non è nemmeno tutta colpa loro, perché nessuno glielo spiega. Non sanno che quello che chiamano “dittatore”, Viktor Yanukovich, è stato eletto nel 2010 col 35% dei voti e che la sua rivale, la Yulia Tymoschenko che tanto piace qui in Europa - carina e donna, che di questi tempi pare essere un vantaggio a prescindere- è arrivata distaccata di 10 punti. Non sanno che questa donna è una conservatrice - “la populista che veste arancione”, l’ha chiamata l’Economist - ed ex magnate del gas scesa in politica, arrestata con l’accusa di abuso di potere in seguito alla ratifica di un accordo con la Russia sulle forniture di gas, per la quale la si accusava di avere indebolito la posizione del suo paese di fronte alla Russia. Non sanno che il partito che ha spinto molti manifestanti a scendere in piazza giorni fa e che si appresta a entrare nel nuovo governo, il partito Svoboda, ha chiare tendenze neo naziste. Ecco alcuni dei punti del suo programma, tradotti letteralmente dall’inglese e disponibile nel loro sito: - Implementazione di un sistema penale contro ogni manifestazione di “ucrainofobia”. Ergo, la minoranza russa e tutte le altre stiano caute; - Implementazione di un sistema che miri alla salute riproduttiva, basato sul divieto di aborto tranne che per motivi medici o in caso di stupro, qualora questo sia dimostrabile; - Equiparazione dell’aborto illegale al crimine di tentato omicidio. Una restrizione del genere non esiste nemmeno in certi paesi islamici; - Divieto di pubblicizzare sigarette e bevande alcoliche in tutto il paese e criminalizzazione dell’uso di droghe, sia leggere che pesanti, e delle forme di perversione sessuale. I gay sono avvertiti. - Adozione di leggi anti immigrazione più severe e miglioramento del sistema di detenzione e deportazione degli immigrati illegali. Sì, scrivono proprio così, deportazione. -Divieto di adozione di bambini ucraini a famiglie non ucraine. Tra i politici italiani a complimentarsi col leader di Svoboda per la “Rivoluzione” in atto, a suon di “Forza Kiev”, “Forza Ucraina”, Roberto Fiore di Forza Nuova. C’è una mamma che consiglia di mandare la ragazzina in una scuola speciale per portatori di handicap, come si fa all'estero. Il figlio frequenta l’istituto Itsos Albe Steiner di Milano e pare che, a causa della presenza di un’alunna diversamente abile all’interno della classe, il suo pargolo non potrà andare in gita. I docenti sottolineano che la cancellazione del viaggio di istruzione sia un provvedimento disciplinare, il buon vecchio e caro “non ve la meritate”, sempre in auge e sempre proficuo. Ma la signora rafforza: “Siccome lei è disabile, nessuno potrà andare al pattinaggio o alla giornata di equitazione!” E’ questo l’esempio che danno alcuni genitori ai loro figli. Questo fanno in anni ed anni di incessanti messaggi, subliminali e non. Questi sono i princìpi che inculcano sotto la loro pelle, come tatuaggi scolpiti fino al derma che non andranno più via. Procedono quotidianamente spogliando e distruggendo quanto di buono è insito in ogni bambino e poi seguitano spargendo sale intorno. Allontanando ogni diversità dalla vita dei figli per timore che sottragga loro qualcosa e le fragilità altrui diventano ostacolo da distruggere. Ad ogni costo, ad ogni prezzo. Anche quello dell’indecenza! Scienza e poetica del bacio sulla bocca Di Fiorenzo Caterini Alcuni sostengono che la poesia arriva laddove scienza e filosofia non giungono. Penso sia vero. L’intuito e il sentimento acuto fondono il nucleo dell’atomo con la mente. Ed è vero che, spesso, la scienza, soprattutto quella di stampo accademico, è costretta da regole e procedure che ne impediscono la piena espressione. Ma siccome la fluidità del sapere umano ci offre variabili imprevedibili, ecco ritrovarmi, per una volta, a ragionare invertendo i termini della questione. Mi trovo a ragionare, cioè, su quanto la spiegazione scientifica di questioni attinenti l’argomento più decantato dalla poesia, l’amore, in realtà riesca ad andare ben oltre quanto pensato dai poeti. A dispetto dell’idea che l’amore e le sue componenti possano essere comprese solo con un grande sforzo spirituale, la razionalità scientifica raggiunge vette di spiritualità idealistica forse impossibili da raggiungere dalla poesia, ben oltre, direi, le banalità di apostrofi rosa e simili. In particolare sul bacio. Che possiamo suddividere, in sintesi, in due categorie. Il bacio sociale, quello degli amici e dei parenti; e il bacio sensuale. Il bacio sociale non è altro che la conversione culturale di una preziosa attività sociale che rinveniamo nei primati. I gruppi di scimmie, infatti, attraverso l’aspirazione d’aria con schiocco delle labbra, si ripuliscono vicendevolmente dai parassiti. Questa cosa può sembrare tutt’altro che poetica, me ne rendo conto, ma ha proprio in questo il suo valore. Per superare la barriera del ribrezzo, infatti, occorre un legame sociale che nasca da motivazioni interiori molto forti. La società, come organismo complesso, si fonda su questi legami che, col tempo, la cultura antropologica trasforma in affettivi. Anche la carezza, se vogliamo, ha la stessa funzione, di spulciare il pelo del compagno. Non a caso sono i capelli la parte più accarezzata. E fin qui stiamo dentro la poetica del bacio sociale. Ora veniamo invece al bacio sensuale, quello sulla bocca, per intenderci. Qui, per fortuna, i parassiti non c’entrano nulla. Gli umani sono animali molto sensuali. Hanno una necessità evolutiva molto particolare, quella di dover seguire per molti anni la prole che, a differenza delle altre specie, ha necessità di molte cure parentali. Il piacere del sesso serve ad alimentare un sentimento di legame per la coppia (o di un gruppo parentale), che così, restando unito, garantisce la sopravvivenza della prole e quindi della specie. Niente di poetico, per il momento. Quello che va oltre la semplice spiegazione scientifica, è la sublimazione del bacio come elemento primigenio del rapporto tra genitori e figli. Il bacio, infatti, è la trasformazione culturale di quel passaggio di nutrimento che avviene tra genitori, specie la madre, e i figli, durante la crescita. La forma primigenia di amore è dunque quello figliale, e nel corso dell’evoluzione questa chimica sentimentale, fondamentale per la sopravvivenza della specie, si è trasferita anche al compagno, con l’aggiunta del piacere fisico derivante dall’attività, fondamentale per la sopravvivenza, rappresentata dalla sessualità. Una miscela potentissima, amore primigenio e attrazione fisica, capace di devastare l’anima delle persone. Questa cosa la trovo di una bellezza straziante. Sapere che il bacio rappresenta la forza vitale, il nutrimento simbolico della vita e, soprattutto, il prendersi cura l’uno dell’altro come una materia unica, come un fluido ininterrotto di energia, è sconvolgente, e fa capire quanto l’amore, scomposto nel suo elemento più semplice e preliminare, sia una forza che racchiuda, in sé, tutta l’essenza della generazione e della stirpe. Ecco perché, deviazioni ludiche o edonistiche a parte, il primo bacio sulla bocca ha quasi il significato dell’apertura del patto sulle quali stabilire le prime regole non scritte. Il bacio è dunque una manifestazione promettente di reciproca attenzione e tenerezza, è il prendersi cura dell’altro, il nutrirlo, come si farebbe con il proprio bambino. Infatti, dopo il primo bacio, è tutto un vezzeggiamento infantile, ciccino e piccolino mio, trottolino e pucci pucci. Si torna bambini, ma non per caso. L’amore, dunque, ci rende bambini e genitori nello stesso tempo, e ci stringe in una morsa che è di solidarietà molto stretta, vitale. Il potente motore del piacere fisico, che la natura ha messo a disposizione della riproduzione, alimenta questo legame. Ecco perché, mi direte, le coppie in crisi non si baciano più, e neppure con l’amore mercenario. Ma come in tutti i fatti della cultura umana, la cosa funziona solo se c’è un elemento assolutamente fondamentale: la reciprocità. Senza reciprocità, non si va da nessuna parte. Altro che apostrofo rosa. Non è mai troppo tardi. Ho scoperto che stasera, in televisione, ci sarà una fiction su Alberto Manzi, il maestro di “non è mai troppo tardi”. Ero piccolo, avevo l’età giusta per ascoltare quello strano maestro, così diverso e così lontano. Mi piaceva come disegnava. La mia maestra, per esempio, faceva solo cerchi storti che una volta chiamava arance o mandarini o lumache o ruote, a seconda della lettera da imparare. Ma erano sempre uguali. Alberto Manzi, invece, scriveva e disegnava con quella calligrafia da “bella copia”. Io restavo ad osservarlo e sorridevo davanti a mio nonno che, invece era interessato solo a Mina o alle gemelle Kessler e per lui “non è mai troppo tardi” non era interessante. Coerentemente analfabeta conosceva tutte le poesie e le battorine in sardo-logudorese a memoria. A mio nonno questo bastava. Quel maestro in bianco e nero rappresentava per me il doposcuola, quello che una volta si chiamava “Cres”, acronimo di qualcosa che non ho mai compreso. Andare al cres significava giocare con la plastilina e stare insieme ai compagni. Era la fine degli anni sessanta. Avevo le figurine Panini in tasca, Alberto Manzi come maestro ideale e le puntate dell’Odissea come capolavoro cinematografico: lo sceneggiato della domenica. Erano anni in cui si poteva stare per strada l’intero pomeriggio per poi rientrare ad ascoltare quella strana trasmissione dove noi, piccoli scolaretti ripetevamo con gioia le lezioni di grammatica rudimentale di Alberto Manzi e guardavamo la sua mano disegnare benissimo piccoli alberi e case e animali. “Non è mai troppo tardi” è l’inno a non arrendersi, a non mollare, a provare e riprovarci. E’ un titolo sublime non tanto per una straordinaria trasmissione, quanto per la trama della vita. Ecco, con questo spirito, stasera, mi affaccerò curioso a guardare attraverso l’angolo della nostalgia questo sceneggiato, meglio, questa fiction su un maestro della parola, su un signore che non ha mai alzato la voce e ha provato, con squisita gentilezza e bellissima lentezza, a suggerire di provare e riprovare. In fondo, nella vita, nelle scelte, nei sogni quotidiani, non è mai troppo tardi. Proviamoci. Di questi tempi.... Da bambina giocavo a tennis. Ho iniziato intorno ai 10 anni e non ho mai smesso. Il Tennis Club, che frequentavo quasi quotidianamente, annoverava soci prevalentemente maschi e gli unici gonnellini che svolazzavano tra i campi erano il mio e quello di una compagna di scuola. Gioca oggi gioca domani, a furia di sfidare virili racchette, eravamo diventate abbastanza bravine. Gli avversari avevano anche smesso di destinarci il privilegio di essere esonerate da servizi, diritti o rovesci a velocità supersonica e, dopo anni di incessanti allenamenti, gareggiavamo in maniera abbastanza paritaria. Avevano invece mantenuto inalterata un’abitudine che mi mandava letteralmente in bestia: proponevano una partita, in singolo o doppio indifferentemente, ed accompagnavano la sfida con un’aberrante concessione – Dai, voi partite con 3 game di vantaggio – Rifiutavamo sdegnate e talvolta anche un po’ incazzate. Va da sé. Ricordo che una volta, animata da un temperamento più spigoloso di quello odierno, avevo risposto: “Vattene affanculo e il vantaggio concedilo a tua sorella!” Quell’agevolazione, che ai loro occhi voleva essere una premura, mi umiliava nel profondo. Sminuiva le mie capacità, offendeva il sacrificio negli allenamenti e mi mortificava enormemente. Esattamente come ritengo lo siano le quote rosa. Non sono maschilista, non sono femminista: sono per la parità. E se parità dev’essere, che lo sia anche nella competizione. Riservare una corsia preferenziale, come fosse un parcheggio per disabili, offende l’intelligenza femminile. Uomini e donne sono diversi, ma si tratta di quella differenza che non prevede la superiorità dell’uno o dell’altro. Quanto, semmai, propensioni diverse. Aree del cervello che lavorano in maniera distinta regalando, all’uno o all’altro, propensioni squisitamente individuali. E’ assolutamente vero che la donna, nel corso della storia, è stata sempre relegata in seconda fila e le sono stati negati ruoli che, invece, avrebbero dovuto attribuirle per indiscusso valore. Ma è anche vero che essere donna non è un merito, così come non lo è la giovinezza. Ci sono donne straordinariamente competenti ed abili, ce ne sono delle altre estremamente idiote ed impreparate. Così come gli uomini, eh?! E se decido di accettare la sfida, affilo le mie armi e dimostro di meritarlo quel posto al quale ambisco arrivandoci con la rivelazione delle mie competenze e non con un avvilente passaggio privilegiato. Quei 3 game di vantaggio concedili a tua sorella, semmai! |
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July 2014
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